Recensione: Heavy Crown
…il fantasma di Porstmouth…
Il 3 agosto 2013 presso lo Slidebar in California si stavano esibendo per la prima volta i Last In Line quando il fantasma di Portsmouth si manifestò sotto forma di luce. A notare il singolare evento è stato Andrew Freeman, solo qualche giorno dopo il concerto, mentre riguardava le foto dell’esibizione distinse una sagoma nota ai più. Freeman cantava e alle sue spalle si materializzò l’immagine di Ronnie James Dio, la leggendaria voce dei Dio. Le foto, postate in seguito dai principali portali di informazione, tuttavia evidenziano solo un gioco di luce.
Qualche anno prima in una Sala Prove
Tutto comincio in una sala prove. Vivian Campbell alla chitarra, Jimmy Bain al basso, Vinny Appice alla batteria si ritrovarono per una jam session. Probabile abbiano suonato i classici dei Dio, quelli che avevano contribuito a creare e che ad oggi sono considerati delle pietre miliari dell’heavy metal. Infatti i primi tre album “Holy Diver”, “Last in Line” e “Sacred Heart” portano le loro firme. Poi Vivian Campbell viene licenziato per contrasti con Ronnie James Dio e lo seguiranno, dopo la pubblicazione del successivo “Dream Evil”, anche Bain e Appice. Ognuno di loro percorrerà strade diverse, Bain e Appice ad un certo punto rientreranno nei Dio, mentre Campbell prosegue la sua carriera nei Def Leppard. Anni dopo, come dicevamo, la voglia di ritrovarsi e suonare assieme li conduce in una sala prove di Los Angeles. Senza progetti predefiniti suonarono e scoprirono che la magia tra loro non si era affievolita. Le prove si trasformano in concerti. In una delle loro esibizioni vengono contatti dall’etichetta Frontiers Records che ha in mente un piano: album più tour?
…Adii
Non abbiamo parlato del tastierista Claude Schnell, che era stato membro dei Dio dal 1984 al 1987 e si era unito ai Last in Line per il tour che li aveva portati a svolgere delle date in California, Uk e Giappone. Quel tour era frutto della passione per la musica, gli ex. Dio volevano divertirsi, un’estensione in fondo delle jam in sala prove. Per l’occasione reclutarono alla voce Andrew Freeman che nella sua carriera poteva annoverare tre tour come cantante dei Lynch Mob e da chitarrista (oltre che backing vocals) con i The Offspring nel loro tour del 2008 a supporto di “Rise and Fall, Rage and Grace”.
Tuttavia a novembre del 2015 Claude Schnell lascia la band nel momento cui le cose diventano più serie e i Last in Line vogliono scrivere brani e fare tour. Probabilmente l’impegno diventa troppo gravoso per Schnell. La band decide di rimanere in formazione a quattro.
Nei primi mesi del 2016 i Last in Line si preparavano per lanciare il loro album d’esordio intitolato “Heavy Crown” quando il 23 gennaio veniva data la notizia del decesso di Jimmiy Bain che avrebbe dovuto esibirsi la notte successiva con i Def Leppard nell’ “Hysteria High Seas”. I Last in Line decidono di annullare le date del tour a supporto del nuovo album tranne un paio, una delle quali si terrà il 23 aprile al Frontiers Rock Festival III (l’altra al Rocklahoma durante il Memorial Day).
Una corona onerosa
Non si tratta davvero di ricominciare tutto da capo. Non quando hai un’esperienza come quella dei Last in Line. Si tratta in realtà di ritrovarsi, di ridefinire determinati equilibri, di affrontare fantasmi e mettere in scena l’ennesima rappresentazione frazionale di un mondo interiore che per magia riesca a espandersi in note.
Il titolo del nuovo album lascia intendere che il passato è certamente un privilegio regale, ma allo stesso un onere, qualcosa da trattare con cautela e con coraggio allo stesso tempo. Pertanto non rimane che vedere cosa si nasconde al di sotto del(la) loro “Heavy Crown”.
La prima traccia intitolato “Devil in Me” è candida ammissione di colpevolezza: riff vintage strappano il sipario ad un passato che torna rinvigorito da una voce che non ti aspetti, Freeman diventa grido che sfiora il blues e sembra davvero intenzionato a uccidere i demoni che affollano le mente dell’ascoltatore in un finale violento. Per il resto è tutto lì immutbile Campbell e soci tornano a suonare come ai tempi leggendari di Dio. Tutto lì come se non fosse cambiato nulla o meglio non proprio.
Segue “The Martyr” in un ritmo veloce, spezzato da riff abrasivi che poi confluiscono in un solo veloce ed elegante di Campbell. Ancora Freeman in tutta la sua irruenza detona melodie. La batteria di Appice è lì dove dovrebbe essere da sempre. Vecchiume forse, ma funziona alla grande.
Poi “Starmaker” rallenta i tempi, riff deframmentano astri digitali, qui la voce è in controllo e riesce in controllo a deliziarci con una melodia che ti si incolla addosso. Ancora la chitarra di Campbell pare disegnare note di vendetta di ciò che non è stato, ma avrebbe potuto essere.
La quarta traccia intitolato “Burn This House Down” è certamente un altro rimando a quanto fatto con i Dio, ma ancora una volta la voce di Freeman fa la differenza nel momento in cui riesce a dare enfasi ad ogni singola parola, a dialogare con riff in un mid-tempo esplosivo.
In “I Am Revolution” i Last in Line replicano il passato: la voce di Freeman fa il verso a quella di R.J.Dio, i riff tirati seguono i tempi veloci di una batteria che non ha tregua. Mi convince di meno, qui Freeman perde in parte quel po’ di personalità che fin qui aveva mostrato in dosi gargantuesca e la melodia diventa meno efficace.
“Everyone wants to play the victims…” la voce si carica di tonalità scure e sinistre. I riff rallentano e in “Blame It on Me” Freeman diventa teatrale trovando allo stesso tempo le misure ad un brano costruito in maniera raffinata e potente allo stesso tempo.
Seguono “Already Dead” e “Curse the Day” che scorrono piacevoli tra parti lente che in realtà prendono vita nella voce di Freeman e parti strumentali più veloci. Brani piacevoli ed il secondo ha un attitudine maggiormente radiofonica.
La nona dei Last in Line s’intitola “Orange Glow” e si muove in bilico tra il dramma gridato di Freeman e riff chirurgici di Campbell. Funziona e in qualche mondo rimanda al mood degli Audioslave del 2002.
La “trilogia” finale mi piace e non poco. Infatti i due brani rimanenti “Heavy Crown” e “The Sickness” trovano di nuovo le misure per disegnare melodie pregevoli. Vi sono inoltre tracce di modernità che le accumunano al brano precedente.
Gli ultimi sulla linea (conclusione)
Un esordio che non è tale. Un passato che torna, ma che in alcuni momenti prova la via di fuga. Quella via passa per la voce dell’ultimo arrivato Freeman che è carica di vitalità e ci restituisce passaggi anche piuttosto pregevoli. Se la voce di Freeman è elemento di rottura rispetto al passato dei Dio disegnando melodie personali e talvolta attuali, è bene sottolineare che la sua voce è spesso sovraccaricata nei toni e potrebbe non piacere o stancare. La prova dei Last in Line, a mio modo di vedere, è davvero ottima con passaggi particolarmente pregevoli nella chitarra di Campbell e nelle ritmiche dell’accoppiata Bain/Appice. La produzione dei suoni poi è affidata a Jeff Pilson (Dio, Dokken, Foreigner tra gli altri) e riesce a trovare un equilibrio tra le forze in campo restituendo brani cristillani e puliti. Davvero un piacere ascoltare “Heavy Crown”.
L’esordio dei Last in Line è un mix di brani che ripercorrono il passano e altri brani che recano segni di modernità, ma in entrambi è la voce Freeman a prendere la scena con forza e personalità in un dialogo pregevole con la musica orchestrata dai suoi compagni. In ogni caso il giudizio dell’eventuale ascoltatore di “Heavy Crown” potrebbe essere influenzato e limitato non tanto dalla qualità delle composizioni stesse quanto dal preconcetto per cui tutto quello che ci ricorda il passato è da scartare a priori. A mio modo di vedere rimane un ottimo album che una gran parte degli estimatori del passato potrebbe apprezzare più facilmente mentre agli altri consiglio di dargli una possibilità perchè, come detto, è musica di personalità e talvolta sorprende sconfinando in un’avanguardia, mai fine a sè stessa. Merita.
MARCO GIONO