Recensione: Heir

Di Daniele D'Adamo - 21 Marzo 2025 - 0:00
Heir
75

Formatisi nell’ormai lontano 2008, i This Gift Is A Curse tagliano il traguardo del quarto full-length in carriera, “Heir“.

Una premessa che lascia intravedere il fatto che si tratti di un prodotto adulto, maturo, giacché i musicisti hanno avuto tutto il tempo per evolversi dal black metal allo sludge e dallo sludge all’hardcore, anche se quest’ultimo genere è soltanto quello più prossimo al sound del quintetto svedese.

Sound di difficile discernimento poiché continuamente oscillante fra più stili. Si parte dalla follia totale dell’opener-track “Kingdom“, manifesto in parte della tortura sonora, della violenza musicale massima, dalla totale annichilazione, dall’esplosione di furibondi blast-beats. In parte poiché a metà essa si trasforma in un allucinato segmento ambient, caratterizzato dall’inumana voce di Jonas A. Holmberg con harsh vocals che spruzzano sangue a seguito della scarificazione della gola, talmente sono interpretate ai limiti delle possibilità umane.

Discutere di hardcore o meno è quasi superfluo. Questo perché l’approccio musicale alla questione è del tutto personale. Come detto, un approccio che abbraccia più stili che, grazie alla bravura della band, confluiscono in uno solo. Il proprio. Come dimostra il tormentone “No Sun, Nor Moon“, nel quale il titolo del brano viene ripetuto decine di volte sino a, inevitabilmente, ficcarsi nei lobi temporali dei cervelli di chi ascolta.

Difficile, quindi, trovare una definizione per la mostruosa creatura partorita dai Nostri. Il che si spiega come sopra evidenziato, e cioè che la mancanza di un chiaro percorso da individuarsi all’interno del disco porta a essere un po’ disorientati. Tant’è che per comprendere appieno – semmai fosse possibile – le idee del combo scandinavo è necessaria una buona dose di pazienza per compiere più e più passaggi del disco sotto il laser. Forse può aiutare l’aggettivo atmosferico ma, alla fin fine, si tratta di sensazioni personali, di reazioni uniche all’input che viene immesso nella testa dall’LP.

Ciò parrebbe essere in contraddizione con l’oggettività necessaria a interpretarlo ma così non è giacché il cardine del lavoro si basa sull’alternanza di aggressioni brutali tipiche dell’hardcore (“Death Maker“), questo sì, a lunghe passeggiate ambient (“Cosmic Voice“), durante le quali l’intervento degli strumenti è ridotto al minimo. Accompagnati da sempiterni campionamenti, volti a creare atmosfere cupe, post-apocalittiche, nelle quali ama campeggiare Holmberg assieme alla sua voce, torturata da egli stesso.

Più precisamente, si è di fronte a un’antitesi fra i due poli che si sviluppa nel contrasto fra ferocia musicale ed eteree auree, generando così un flusso continuo di fulminei attacchi al fulmicotone (“Vow Sayer“), rumori, note, accordi, inserimenti ambient, improvvisi rallentamenti del pazzesco ritmo tenuto su dal drumming di Christian Augustin. Tutto quanto, insomma, fa parte del bagaglio artistico della formazione di Stoccolma.

Se tutto quanto sopra ha una valenza generale, gli stessi concetti sono da applicare alle singole canzoni, imprevedibili nel loro aspetto, certamente multiforme ma coerente con il contesto in cui si trovano. “Heir” dura più di un’ora, con tracce lunghe anche nove minuti, il che significa che, durante il percorso dalla ridetta “Kingdom” ad “Ascension“, sono molte le occasioni per apprezzare l’impegno profuso da Holmberg e compagni nell’arzigogolato songwriting e nella successiva messa a giorno del loro monumento musicale.

Al di fuori dei soliti schemi, “Heir” merita attenzione, se si vuole partecipare a un’impresa ardua ma ricca di soddisfazioni. E di questo bisogna ringraziare i This Gift Is A Curse.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Genere: Hardcore 
Anno: 2025
75