Recensione: Helfró
Il duo islandese degli Helfró va ad aggiungersi alla nutrita line-up della divisione Activists della Season of Mist e debutta direttamente con l’omonimo full-length della durata di circa mezz’ora. Questa potrebbe essere la classica situazione tipo per restare impantanati nel dimenticatoio ancor prima di lasciare che il mondo black metal possa attingere dal sound atmosferico offerto dai nostri e ispirato dalle desolate e fredde lande dell’isolotto scandinavo, ma dall’altro lato della medaglia si tratta a tutti gli effetti del modo ideale per esordire e mettere in chiaro quanto lo pseudo isolamento geografico abbia contribuito a rendere ancora più selvaggio e crudo l’umore di un album che sin dai primissimi minuti dell’introduttiva Afeitrun sembra capace di insinuarsi sotto pelle e picchiettare sulle ossa, andando quasi a cercare quelle più deboli e facendoti cadere in uno stato ipnotico che ti lascia risvegliare nel bel mezzo di una terra così incontaminata.
Non essendo un estratto offerto dal National Geographic ma un disco di metal estremo, quello che a tutti gli effetti viene messo insieme da Sìmon (chitarra, basso e voce) e Ragnar (batteria e voce) è un tomo di violento e pesante metal atmosferico che non risparmia l’utilizzo di ingressi corali di tipo quasi rituale (Ávöxtur af rotnu tré) che ben si incastrano nel disegno principale tracciato dalla furia primordiale del duo, accompagnato dalla presenza in studio dell’amico Gìsli, il quale si occupa delle parti di voce pulita. L’attacco avviene su tutti i fronti e l’incessante avanzare batteristico viene protratto da un blast beat che scandisce la follia vomitata fuori da un lamento ancestrale. La malvagità degli Helfró riesce a oscurare ogni più timido raggio di luce e tenerci stretti a se nella soffocante e claustrofobica corsa di Eldhjarta.
Non sembrano esserci punti di riferimento, ma soltanto il cupo avanzare di uno spesso velo nero che soffoca ogni più minima necessità di prender fiato, ne è un esempio le successive Þrátt Fyrir Brennandi Vilja e Þegn Hinna Stundlegu Harma, brani in cui la voce di Ragnar assume un tono ancora più basso, ancora più spettrale e si insinua in mezzo a un riffing più ricercato di quanto verrebbe da credere, trattandosi di qualcosa di così estremo e che ben paga il suo omaggio a quel black metal vecchia scuola che tutt’oggi rappresenta il vero punto di riferimento con il quale una band di questo specifico tipo ha bisogno di rapportarsi. Arrivati a questo punto si è delineata in noi l’idea di quanto questo disco sia composto per far male in tutti i sensi e con questo intendo dire che si ha a che fare con qualcosa che caparbiamente impiegherà un paio di minuti per frantumarvi i timpani, ma che soprattutto lascerà che il veleno della fredda isola del nord si insinui dentro di voi, facendovene accorgere quando ormai sarà troppo tardi e vi troverete in balia della gelida stretta degli Helfró, sia quando viene dato nuovamente spazio al contributo vocale di Gìsli (Hin Forboðna Alsæla) e nella fattispecie quando il lato primordiale ricopre un ruolo di primo piano come in Katrín – eh già, non è una ballad power metal!
Il debutto degli Helfró si conclude esattamente come è cominciato, con tanta violenza espressa con un lavoro che non lascia spazio a equivoci (Musteri Agans), ma concede soltanto l’unica possibilità di farsi travolgere dalla furia compositiva del duo islandese. Una nuova realtà decisamente interessante e che senza dubbio rappresenta uno dei platter più violenti che abbiamo sentito negli ultimi tempi. La maturità artistica viene decantata nella cartella stampa e mai avrei creduto di trovarmi di fronte alla rappresentazione musicale del male scaturito da uno dei luoghi più remoti eppure affascinanti del pianeta.