Recensione: Hell
“Hell” è il secondo album dei Legions of the Night, volenteroso terzetto alemanno che continua con la sua opera di tributo in salta teutonica a ciò che i Savatage fecero nei primi anni ’90. In effetti basta un ascolto di questo “Hell” per entrare in un mood che riecheggia in un certo modo le trame sonore del combo di Tampa, soprattutto per quanto riguarda la carica narrativa creata dalla musica, a cui i nostri prodi tedeschi aggiungono un gusto enfatico e quadrato tipicamente mitteleuropeo. Ciò contribuisce a dar vita a un lavoro in cui heavy d’oltreoceano e power tedesco si fondono in un unicum tracotante e bellicoso. Chitarre graffianti e tastiere maestose ricamano su una base ritmica scandita e preparano il terreno all’entrata in scena di cori possenti e, soprattutto, dell’ugola meravigliosamente heavy di Henning Basse, capace di destreggiarsi tra toni drammatici e una veemenza arcigna e che ogni tanto prova pure a ricordare Jon Oliva non senza un certo successo. Le canzoni sono solide, ben strutturate e accattivanti, e nonostante la durata non proprio accessibilissima (un’ora scarsa) e un tasso di personalità piuttosto basso “Hell” scorre bene, lasciando alla fine dell’ascolto la sensazione di pancia piena ma senza appesantire.
Il profumo di Tampa si avverte già dalle prime note di piano che aprono “Who Will Believe in Me”, pezzo che alterna riff graffianti, passaggi languidi ed improvvisi squarci enfatici e maestosi, il tutto ben incartato in una struttura articolata ma avvolgente. “Exit” mantiene l’attitudine heavy e si gioca bene le sue carte di marcia indomita ma screziata di inquietudine. Naturalmente l’enfasi torna a farsi sentire durante il ritornello, ma si sfuma nel finale che cede il passo all’arpeggio della title track. Qui, a un inizio dimesso e quasi malinconico segue uno sviluppo sempre più carico. Il pezzo si distende su ritmi quadrati che guadagnano corpo via via, stemperandosi durante le improvvise impennate di maestà che lo punteggiano, per poi farsi insistente e sciogliersi nell’arpeggio sentito all’inizio che chiude idealmente il cerchio. Un riff agile apre “Run Faster”, pezzo decisamente più rockeggiante in cui i nostri puntano sull’immediatezza impattante, tenendosi però aperti a qualche fiammata ad alto tasso di pathos. Le note drammatiche di un pianoforte aprono “The Memory Remains”, che con l’ingresso del resto degli strumenti si trasforma sempre più da ballata cupa e malinconica a marcia dall’afflato eroico. La canzone fluisce e rifluisce tra gli umori anzidetti, dispensando ogni tanto qualche zampata più caustica per donare al tutto un po’ di pepe fino alla chiusura sognante di nuovo affidata al piano. Una chitarra canonicissima ma sempre ficcante apre “Fury”, traccia sferzante di classico heavy dal piglio incombente e bellicoso che tiene alti i giri del motore, mentre con la successiva “Save Us” i nostri tornano, dopo un’apertura guardinga e una strofa serpeggiante e grintosa, a rompere gli argini ed elargire pesanti dosi di pathos durante il ritornello. A “And the World has Lost this Fight” sembrerebbe dato il compito di riempire la casella “ballatona intensa”, anche se a dire il vero, nonostante un mood decisamente improntato alla ricerca di pathos, il pezzo esibisce una struttura più stratificata del previso e si destreggia bene tra picchi emotivi, cori enfatici, parti più graffianti e atmosfere cupe. “Demons” è un pezzo scandito e maligno inframmezzato dalle solite pennellate tracotanti e una sezione solista dal vago retrogusto esotico, mentre col pianoforte malinconico della traccia successiva si arriva alla vera ballatona di “Hell”. “Times of Despair” incede con fare languido e appassionato rispettando tutti i passaggi obbligati del caso, prendendosi il suo tempo e fluendo in modo naturale verso il climax caratterizzato dall’innalzamento graduale (ma insospettabilmente contenuto, data la passione dei tedeschi per l’enfasi declamatoria) del trasporto emotivo. Con “Our Bleeding” si torna belligeranti: il pezzo dispensa delle buone scudisciate heavy, giocando con brevi accelerazioni dal tono eroico e tingendosi di incombenza con l’ingresso dei cori. Questo susseguirsi di profumi dona al pezzo un carattere determinato e appagante, chiudendo la parte inedita con la giusta carica. “Hell” si conclude con una cover, che ovviamente non poteva essere che dei Savatage. “When the Crowds are Gone” viene trattata in modo rispettoso, quasi reverente, e riproposta senza apportare alcuna deviazione – se si eccettua forse un eccesso di pathos qui e là – alla sua struttura di base.
“Hell” è un buon lavoro, che ad un assunto ben preciso (rifare i Savatage aggiungendo l’enfasi tedesca) fa seguire uno sviluppo concentrato e sforna canzoni solide ed appaganti che, pur non raggiungendo appieno lo scopo prefissato, garantiscono comunque un’ora di musica muscolare ed appagante che piacerà agli amanti dell’heavy power. Ben fatto.