Recensione: Hell On High Heels
Imbattermi in un nuovo disco degli Angeles è sempre fonte di piacere. Il combo guidato dal chitarrista Dale Lytle, esagerando un po’ uno fra i baffoni più gloriosi dell’hard, affonda la propria storia nei lontani anni Settanta, in quel della città degli Angeli, per l’appunto. Si formano ufficialmente nel ’77, suonano come co-headliner dei Motley Crue al Troubadour nell’81 ma per i debutto su disco debbono attendere sino al 1984, con Were No Angels. Probabilmente il loro album più iconico rimane però il successivo Give It Up, anche per via della copertina accattivante. Già, perché un altro fattore fondamentale legato alla band californiana è stato quello di abbinare tutto il repertorio più kitsch e scontato a livello di immagini alla loro discografia. Quindi bellocce à go-go, fuoco, fiamme, cromo, moto, teschi e via di parafernalia hard rock sino al termine. Oggi, nel 2020, dopo tredici album e un breve break – dal 1991 al 1994 – gli Angeli irrompono nuovamente sul mercato con un disco nuovo di zecca griffato Dark Star Records con in copertina la classica fatalona in autoreggenti nere, décolleté rosse tacco dodici e body in pizzo adagiata comodamente all’interno di una vettura d’epoca made in Usa. Ad affiancare il vecchio guerriero Dale Lytle, un’ulteriore carica di baffi e pizzetti a tappezzare le grinte di Danny Basulto (batteria), Louis Collins (voce) e Cal Shelton (basso).
Hell On High Heels, questo il titolo del nuovo lavoro, consta di otto pezzi per un totale di trenta minuti di hard rock d’annata. Sarebbe davvero troppo semplicistico e ingeneroso liquidare gli Angeles come una fra le centinaia di band che persero il treno giusto negli anni Ottanta. Onestamente non possedevano la caratura dei Motley Crue o dei Guns N’ Roses ma nemmeno seppero assestarsi sui livelli di altri ensemble quali Poison, Faster Pussycat, Dokken, L.A. Guns, Ratt, solo per citarne cinque che il successo lo hanno saputo assaporare, quantomeno per un po’.
Personalmente ho sempre inquadrato gli Angeles come un gruppo di quelli stradaioli, nel vero senso della parola, autentici, quindi e molto meno laccati di alcuni di quelli elencati poc’anzi. Chiaro, al combo guidato da Dale Lytle un qualcosa è sempre mancato, ma d’altronde la magia e la chimica che hanno saputo esprimere altri coevi poi divenuti superstar non è ingrediente che si possa comprare al primo supermarket all’angolo.
Nonostante questo, a distanza di 43 anni dalla loro costituzione, siamo ancora qui una volta di più a trattare un loro disco, segno che la perseveranza e il credo o ce l’hai o non ce l’hai. E Dale Lytle ne possiede a tonnellate, di attitudine hard fuckin’ rock.
Basta ascoltarsi a tutto volume pezzi come la title track per respirare la polvere sollevata da una rombante Harley Davidson lanciata a tutta velocità, per quanto possibile, of course, su una di quelle stradine che costeggiano il deserto del Mojave, in California. Stessa sorte per “Run” e “Rolling Like a Thunder”. “Heal the Woods” è la ballad fuori tempo massimo che incide a chiare lettere la passione e l’attitudine degli Angeles nella roccia marroncina che fa da sfondo al Sunset Boulevard. Chiusura in salsa Rock’N’Roll elettrico sulle note di “Holy Fenton”.
L’ugola di Louis Collins è tagliata per l’hard californiano e il resto della band martella il giusto. E da queste parti truemetallare basta e avanza, senza per questo gridare al miracolo.
Let’s RRRRRRoooooooaaaaaaarrrrrrrrrrr!
Stefano “Steven Rich” Ricetti