Recensione: Helvete

Di Alberto Fittarelli - 13 Maggio 2003 - 0:00
Helvete
Band: Nasum
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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89

Tornano con il loro terzo full-lenght gli svedesi Nasum, nome forte della scena grind scandinava, saliti definitivamente alla ribalta dopo quello Human 2.0 che aveva rivoluzionato parte della scena grind forgiando un suono nuovo, ricavato dai migliori Napalm Death e rimodellato in termini moderni. Ed il ritorno, dal titolo emblematico di Helvete (gli inferi in lingua svedese), non è altro che un ulteriore grosso passo avanti per questa band, che ormai sta impartendo lezioni davvero a tutti i colleghi del settore.

Inseriamo il dischetto e ci rendiamo conto che a livello di produzione le somiglianze coll’album precedente ed anche col debutto Inhale/Exhale sono tante: suoni di chitarra e di batteria secchissimi, con una voce prevalentemente basata su un ottimo screaming ad incastrarsi benissimo sul tessuto iperveloce delle songs. Ma le vere novità sono a livello compositivo e si possono incontrare già nel quartetto d’apertura del disco: la formula non è più solo quella del blast-beat puro in tutti i pezzi, ma le variazioni sul tema già presenti sul predecessore sono qui ampliate e molto migliorate, con riffs davvero inusuali per questa band che però si incastrano benissimo nella trama dei pezzi, rendendo a volte anche più estrema la proposta. E’ il caso della seconda Scoop, dove i Nasum sembrano fare un po’ il verso ai Meshuggah, o di Stormshield, dove la chitarra crea con due semplicissime note una melodia che permane sul fondo a guidare la veloce sezione ritmica. Chiaramente queste aperture sono da intendersi come espedienti per variare le canzoni, non come un tentativo di annacquare il sound del gruppo: Mieszko e compagni restano infatti uno degli acts più estremi provenienti dalla Scandinavia, con un batterista che va costantemente a 200 all’ora ed una registrazione che sta facendo scuola, grazie agli studi personali di Mieszko, i Sound Lab, ormai una sorta di Abyss Studio del grind.

Altri episodi particolarissimi sono Doombringer, con tanto di voce gore che ricorre qua e là, e soprattutto la lenta The final sleep, addirittura quasi psichedelica nel suo incedere ipnotico. Ma già con la seguente Slaves to the grind (che ha tra l’altro un’inquietante assonanza con un titolo degli Skid Row di Seb Bach!) si torna all’assalto crust, così come nella maggior parte dei 22 pezzi che compongono l’album. Va detto che i testi del disco rincorrono ancora una volta tematiche sociali e politiche ricavate direttamente dall’hardcore, genere che influenza parecchio (anche musicalmente) questo tipo di grind-sound: titoli come I hate people, Breach of integrity e Go! sono decisamente esplicativi in questo senso. Un’ultima nota di merito va poi fatta riguardo al cover artwork, davvero ben fatto, sullo stile modernista di Sundin e Ward.

Insomma, questo disco non può essere considerato altro che un vero e proprio hit per la Relapse, ultimamente alle prese con prodotti dalla qualità altalenante; un disco che ancora una volta sposterà in avanti i confini dello stile musicale estremo per antonomasia e definirà una nuova sfida per le bands future. Se vi sono sempre piaciuti i Nasum compratelo ad occhi chiusi, ma è consigliato a tutti gli amanti dell’estremo in genere.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli

Tracklist:

1. Violation
2. Scoop
3. Living next door to malice
4. Stormshield
5. Time to discharge
6. Bullshit
7. Relics
8. We curse you all
9. Doombringer
10. Just another hog
11. Drop dead
12. I hate people
13. Go!
14. The final sleep
15. Slaves to the grind
16. Breach of integrity
17. The everlasting shame
18. Your words alone
19. Preview of hell
20. Illogic
21. Whip
22. Worst case scenario

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