Recensione: Here I Am At The End
Al termine di una gestazione durata ben sei anni nasce finalmente questo primo studio-album di Vincenzo Marretta, polistrumentista agrigentino dalle idee molto chiare e che ha profuso in questo “Here I Am at the End” tutta la sua passione e tenacia, componendo e arrangiando tutte le tracce, suonando tutti gli strumenti (vocals incluse) e dedicandosi anche alla produzione dell’album stesso. Che dire: anche prescindendo dal risultato finale del lavoro, uno “chapeau” alla tenacia se lo merita in partenza.
La bio pervenutami descrive quest’album come un “metal psicologico derivato dal thrash di Metallica e Slayer con contaminazioni rock-acoustic”: francamente di thrash ci sento un po’ poco, giusto qualche accenno qua e là, tanto che lo definirei più come heavy metal abbastanza variegato, ma è altresì vero che alla fine le etichette, a fronte della loro immediata seppur a volte fuorviante utilità, servono solo fino a un certo punto, quindi non è il caso di perdersi in dettagli secondari. Ad ogni modo “Here I Am at the End” è un concept psicologico, che tratta il percorso di una persona in determinati momenti critici della sua vita e che, attraverso una progressiva maturazione, lo conduce ad una superiore coscienza di sé. Questo percorso si ripercuote, naturalmente, anche sulla musica proposta, con brani strettamente legati tra loro, e soprattutto sulle linee vocali che la accompagnano, molto più tranquille ed intimiste di quanto ci si aspetterebbe. Purtroppo però, e mi spiace dirlo, proprio la voce costituisce il principale difetto di questo “Here I Am at the End”, in quanto il cantato di Vincenzo non mi ha minimamente coinvolto durante l’ascolto dell’album (peraltro molto ben suonato, secondo me), risultando fin troppo piatta ed impersonale. Anche ponendo che si tratti di una scelta ben precisa, voluta per questioni di coerenza col tono del concept, sta di fatto che non funziona: tralasciando una pronuncia inglese un po’ troppo, diciamo così, scolastica, la voce non emoziona, non coinvolge, non crea quell’empatia che, ad esempio, è l’arma principale di un Warrel Dane in “Dreaming Neon Black”, giusto per fare un esempio noto ai più citando un lavoro concettualmente paragonabile.
Una volta pigiato play veniamo accolti dalla batteria quadrata dell’intro, seguita da un arpeggio armonico che spalanca le porte a “The Road”, prima vera traccia dell’album. Il brano parte con un riff di tipica scuola Heavy, ritmato e roccioso, che si alterna a momenti più dilatati e altri più furiosi per una opener che, nonostante rapidi i cambi di registro anzidetti, si mantiene su ritmi piuttosto cadenzati. La successiva “Last Carnage” prosegue lungo la strada tracciata rallentando i ritmi dopo una breve sfuriata iniziale, concentrandosi su una melodia di base semplice ed inquietante interrotta da una bella accelerazione che, a sua volta, cede il passo ad una bella incursione strumentale, forse un po’ slegata dal resto della canzone. Nel finale si torna alla melodia inquietante di cui sopra, con la voce di Vincenzo che qui, diversamente dalla traccia d’apertura, sembra un po’ più a suo agio e dentro il pezzo. “Emotionally Destroyed” si distende su un arpeggio malinconico che poi esplode in un riff molto classico, lento e cadenzato, su cui si innesta la (mi spiace dirlo) solita voce fredda ed impersonale. È un peccato, perché strumentalmente il pezzo non è male, e trasmette bene quel senso di impotenza e di inesorabilità che purtroppo la voce smorza un po’. La successiva “Come Back” presenta un Vincenzo che alterna cantato in inglese e italiano, e qui mi arriva la prima sorpresa dell’album: le parti in italiano non sono affatto male! Certo, l’impostazione è sempre piuttosto fredda, ma la resa è decisamente migliore. Il brano ricorda un po’ la struttura di “Last Carnage”, con un arpeggio di fondo malinconico e rassegnato intervallato da sporadiche accelerazioni, durante le quali si passa (purtroppo) all’inglese, che si fanno via via più corpose fino al crescendo finale. Non male. “A Lifetime Ago” parte lancia in resta, presentando la prima canzone dell’album che corre su ritmi più arrembanti: anche qui niente da dire dal punto di vista strumentale, purtroppo penalizzata dalla voce troppo monotona. Ad ogni modo la traccia è una bella cavalcata di doppia cassa, che si concede un rallentamento più groove solo nella sua seconda metà, prima di tornare a picchiare duro nel finale. Con “Illusion”, traccia malinconica sorretta dalla chitarra acustica, si torna al cantato in italiano: anche qui il passaggio alla madrelingua si rivela vincente, donando maggiore profondità alla composizione che, unita alla lunga parte strumentale che traghetta l’ascoltatore fino alla traccia successiva, rendono questo brano uno dei più riusciti dell’album, pur se permeata da un senso di rassegnata solitudine. “Human Evil”, traccia completamente strumentale, ci si presenta sulle note di una melodia lenta, opprimente, che aleggia inesorabile sull’ascoltatore fino alla comparsa delle chitarre che, da questo punto, iniziano a tessere la loro tela di riff, anch’essi lenti e cadenzati, intervallati da brevi aperture più dilatate e sognanti. Solo nell’ultima parte del brano si inizia a picchiare duro con riff molto thrash-oriented e doppia cassa a manetta, prima di tornare alla melodia d’apertura e sfumare nella traccia successiva, “Finally Dead”, che parte subito aggressiva con i suoi riff grassi. Il brano è uno dei più veloci dell’album ma, come altrove, si concede un rallentamento in corrispondenza delle sezioni soliste prima di impennare il tasso di solennità nel finale, melodico ma per nulla melenso. “Game of Unconsciousness” torna ai tempi blandi che hanno caratterizzato buona parte di quest’album, irrobustendosi brevemente nella parte centrale e poco prima del finale che cede il passo all’outro, scandita da una rullata marziale che si accompagna ad un arpeggio lento e malinconico che si incattivisce nella seconda metà del brano, prima di concludere questo viaggio nelle emozioni umane.
Dall’ascolto dell’album si capisce che il suo creatore ha ottime capacità strumentali ed un gusto musicale molto sviluppato, che lo porta a scegliere soluzioni semplici e d’impatto a beneficio della fruizione del prodotto senza il bisogno di esibire le proprie abilità con inutili spacconerie; purtroppo il problema di quest’album è da ricercarsi, come scrivevo poc’anzi, nella proposta vocale troppo statica ed inespressiva dello stesso Vincenzo, che alla fine penalizza la resa finale di quasi tutte le canzoni. Se posso permettermi l’ardire di avanzare un suggerimento, consiglierei a Vincenzo di cedere il posto dietro il microfono, mantenendo per sé il ruolo di mastermind e di compositore, dato che le qualità ci sono e sono sotto l’occhio (anzi l’orecchio) di tutti.
In bocca al lupo!