Recensione: Heresy
La prima parola che si esclama dopo l’ascolto di Heresy è minchia.
La seconda parola che si esclama dopo l’ascolto di Heresy è un sinonimo di minchia.
E via dicendo.
L’Ep dei Keres, band formatasi da poco nelle lande dell’Alto Adige, è una mazzata nei denti difficile da dimenticare e in grado di stendere ben più di un ascoltatore esperto di musica estrema in generale e non. I cinque pezzi più intro qui presentati sono tra le carte più convincenti che una band al debutto possa giocarsi e il risultato complessivo è esaltante, fresco e dannatamente coinvolgente. Heresy provoca headbanging compulsivo per tutto il suo minutaggio e si rivela un tritacarne zeppo di ogni ben di dio, ma veniamo con ordine.
Nel caso non lo si fosse capito, i Keres suonano death metal e lo suonano molto bene; riescono però nel loro intento esulando dai canoni e dai concetti base del genere in favore di un sound più votato al groove e all’assalto frontale. Prendiamo quindi una sezione ritmica che è un po’ il sogno di ogni chitarrista: blast beat a raffica intervallati da ritmiche devastanti, assenza totale di tempi in 2/4 (meno male) e una cassa in grado di abbattere tutto ciò che trova. Poi, mettiamoci il fatto che il basso clamorosamente si sente; mettiamoci chitarre in bilico tra tremolo picking, brutal e death svedese, condiamo con un cantato che prende quasi tutti i range della musica estrema in generale, amalgamiamo con un po’ di speck affumicato e otteniamo i Keres.
Heresy è un ep che a sorpresa si rivela anche longevo e in grado di offrire qualche sorpresa: si parte con una breve intro acustica che sfocia presto nella ben più convincente The Unworthy Ones. Tutta giocata sull’alternarsi tra blast beat e tempi in battere, è in grado di focalizzare fin da subito gli elementi cardine del sound dei nostri, che fanno anche del songwriting una delle loro armi migliori. Non vi sono mai passaggi morti nei brani o momenti sottotono; il livello si mantiene sempre alto e non sono mai presenti copia-incolla specialmente a livello di riffing o costruzione dei pezzi. L’incipit, che è anche il riff portante di Strings Of Fate, è in grado di spolverarvi casa; se vogliamo tirare fuori dei paragoni possiamo chiamare in causa i Behemoth, i primi Fleshgod Apocalypse e compagnia bella. In questo frangente vi è anche una sorpresa rappresentata da un inaspettato finale acustico in grado di donare un buon valore aggiunto a un già ottimo pezzo. La titletrack e la seguente Phosphorus sono ancora più pesanti e devastanti delle precedenti, mentre la chiusura del lotto è affidata alla cupa e marziale Dawn Of The Titans.
Non vi è davvero nessun appunto da poter fare ai Keres, che danno alle stampe un prodotto ottimo, curato sotto tutti gli aspetti e anche ben confezionato. Aspettiamo sinceramente un full length a tutti gli effetti e diciamo che, se i ragazzi riusciranno a seguire la strada dei Fleshgod riuscendo a dare al sound un marchio di fabbrica personale e riconoscibile, il nostro paese avrà un’altra punta di diamante a livello nazionale ed internazionale.
Parafrasando uno slogan ben più famoso, Keres c’è.