Recensione: Heresy II – End Of A Legend
Tra i tanti eroi della scena metal continentale, un posto di rilievo lo merita sicuramente Charly Steinhauer, storico cantante, chitarrista e mastermind dei thrasher teutonici Paradox, che tornano sulla scene con il loro ottavo lavoro sulla lunga distanza, “Heresy II. End Of A Legend“, il quale, come lascia intendere il titolo, altro non è che il secondo e conclusivo capitolo del capolavoro di thrash europeo “Heresy“, uscito nell’ormai lontano 1990. Il nostro Charly continua strenuamente a portare avanti il suo progetto nonostante mode, cambi di line-up e imprevisti gravi (da ricordare l’intervento a cuore aperto subito qualche anno fa) e solo per questo merita il massimo rispetto, anche considerando che il perimetro di azione è ormai quello della scena underground, ben lontana dai grandi palchi e dai ritorni economici rilevanti. Proprio a livello di formazione, questa volta la stessa vede la presenza dei “cavalli di ritorno” Olly Keller (già presente su diversi lavori dei nostri ma non sul precedente “Pangea“) e Christian Münzner (Obscura, Eternity’s End tra gli altri) che aveva preso parte a “Tales Of The Weird” del 2012, nonché del membro fondatore Axel Blaha (che aveva lasciato la band ai tempi del primo “Heresy“) alla batteria. Con una line-up rinnovata, quindi, ma affidabile, i Paradox accettano la sfida di riprendere in mano il concept album che si è rivelato nel corso degli anni il loro lavoro più significativo. Medioevo, eresie, anatemi e persecuzioni sono i temi lirici di un album ambizioso. Non solo cavalcate veloci, quindi, ma qualcosa di più, proprio perché il concept lo richiede. Saranno riusciti i nostri nell’intento di andare oltre allo stile che li ha resi celebri? Ossia, essere efficaci nel diluire, approfondire e prescindere dal thrash più diretto che è il loro marchio di fabbrica?
L’apertura dell’album è certamente coinvolgente: il trittico iniziale trascina all’interno del concept – purtroppo i testi non sono disponibili nel promo – e lo fa all’insegna della velocità. Tre pezzi convincenti, dove la band è a suo agio e riesce alla grande in quello che sa fare meglio. Tre galoppate da veterani, semplici se vogliamo ma terribilmente efficaci. In particolare l’attacco di “The Visitors” (pezzo già proposto in anteprima), è il riff che ogni appassionato vuole sentire. “Children Of A Virgin” sembra un passaggio più al servizio della storia, con strofe decisamente appesantite e tentativi di rallentamento riusciti solo in parte, al di là di una interessante e prolungata fase solista. Si continua con “Journey Into Fear” e il giudizio non migliora particolarmente: lungo (troppo?) pezzo che si lascia ascoltare senza particolari sussulti, benché formalmente a posto. A questo punto l’occhio non può non cadere sul dettaglio relativo alla durata del disco: 75 minuti e subito il paragone va al primo capitolo di trenta e passa anni fa, che non arrivava ai tre quarti d’ora (il lato singolo della mitica cassetta C-90, per intenderci!). Non si vuole arrivare subito a conclusioni, ma all’ascoltatore il dubbio che stia ascoltando un lavoro un po’ prolisso forse viene…Ed ecco che si arriva a “A Meeting Of Minds” che, appunto, si avvicina ai 10 minuti da sola. Un pezzo lento che vuole essere probabilmente più anthemico di quello che riesce ad essere e che in realtà si rivela un inno sì, ma alla noia.
“Priestly Vows” recupera certamente in velocità e conseguentemente (come spesso accade quando si ha a che fare con i Paradox) in incisività, sebbene anche questa volta si tenti di arricchire (?) il pezzo con qualche break atmosferico poco memorabile. Fortunatamente la fase solista di chitarra è ancora una volta impeccabile e nell’insieme il pezzo appare più interessante rispetto a quelli immediatamente precedenti. E dopo una “A Man Of Sorrow” dal refrain quasi stucchevole e da un impianto ritmico decisamente banale, è il momento della conclusiva (se si esclude una breve outro strumentale) “The Great Denial“, ancora una suite. Dopo numerosi ascolti, rimane impresso solo lo stupefacente lavoro di Christian Münzner che davvero si conferma fuoriclasse di prim’ordine, ma che nulla può nei confronti di un songwriting poco ispirato: non basta scrivere un pezzo lungo con svariati cambi di atmosfera per creare epicità.
In questa occasione i Paradox hanno cercato di superarsi, di andare al di là del loro standard e forse hanno esagerato; in questo nuovo album, ogni volta che si sono allontanati dal thrash tout court hanno perso in mordente e personalità. In una parola, hanno annoiato. Forse la causa di tale inconcludenza è lo stesso concept che obbliga all’appesantimento del songwriting, più ingessato rispetto alle ultime prove in studio. A ciò si aggiunge una produzione non particolarmente esaltante e fai-da-te, un peccato per una band di veterani.
Sia chiaro, “Heresy II…” non è una nefandezza, ci mancherebbe, forse è proprio l’amore per la band di Würzburg che porta ad elevate aspettative e ad un ascolto molto attento, ma, molto semplicemente, si tratta di un disco che dopo la partenza convincente tende troppo spesso ad appiattirsi a livello di stile compositivo ed è privo di tutte quella freschezza che rendeva unici lavori come “Tales Of The Weird” e “Pangea“, senza dover tornare indietro nel tempo ai piccoli classici del genere che la band tedesca aveva composto negli anni d’oro. Non bastano al giorno d’oggi le cavalcate thrash o gli assoli ipertecnici e ultraveloci di Christian Münzner per stupire.
Nonostante tutto, “Heresy II. End Of A Legend” è un lavoro ancora molto “Paradox“, probabilmente apprezzabile dai fan del gruppo, ma che fondamentalmente non aggiunge niente di nuovo alla già ottima discografia della band e che, al contrario, risulta davvero poco memorabile.