Recensione: Heritage
Credere che un artista, nel corso della propria carriera, si interessi più ad accontentare i fan che a soddisfare se stesso, è come credere alle favole. Certo, qualcuno lo fa. Qualcuno, pur di non rischiare di cadere rovinosamente (o per rimanere fedele alle esigenze di mercato, ma questa è un’altra storia), preferisce proporre sempre la solita minestra riscaldata. Gli Opeth, fin dalla loro nascita, hanno sempre dimostrato di essere unici, per certi punti di vista, e con l’avanzare della carriera anche di essere uguali a pochi altri. Quei pochi altri che non si limitano a svolgere sempre lo stesso compitino, ma che preferiscono agire di testa propria (e a seconda dei gusti personali), seguendo sì una certa evoluzione, ma pronti anche a mettersi nuovamente in gioco con cambiamenti radicali.
Cosa succede quindi con Heritage? Succede che la band torna a mettersi in gioco, per un certo senso, ma senza farlo con un cambiamento poi così radicale. “Ma come, questi non sono gli Opeth che conoscevamo!”, potrebbe già esclamare qualcuno. E invece no, questi sono proprio gli Opeth. Il ragionamento è anche abbastanza semplice: gli Opeth di Heritage non hanno fatto altro che “mettersi a nudo”. E cosa vuol dire questo? Che se fino a un certo punto nella stessa creatura convivevano due anime ben distinte (ovvero death metal e progressive), adesso una delle due è stata messa da parte a favore dell’altra. Åkerfeldt e soci non hanno fatto altro che abbandonare momentaneamente le influenze death, per lasciare spazio solo ed esclusivamente all’anima progressive. E, attenzione, non progressive metal, ma bensì prog settantiano, il rock che quarant’anni fa veniva definito come sperimentale, e che oggi sembra essere un vecchietto che (per fortuna) non ha nessuna voglia di andarsene in pensione.
Già il singolo The Devil’s Orchard aveva fatto ben capire quale sarebbe stata la direzione intrapresa dalla band, lasciando più di un affezionato nelle grinfie della confusione, altri invece nello sconforto più totale (i sostenitori del movimento “no growl, no party”, per intenderci). Il pezzo, posto in apertura del disco, si impone anche con una certa furia, senza che ci sia necessariamente il bisogno di aggiungere doppia cassa e distorsioni prettamente più metal-oriented. A supporto c’è una produzione, affidata alle sapienti mani di Mr. Steven Wilson, che tenta (e un po’ ci riesce) di essere il più scarna e “vintage” possibile. Sulla stessa linea anche una Slither (tributo personale di Åkerfeldt a R.J. Dio) che vira nettamente verso l’hard rock dei Deep Purple, o anche la sfuriata finale di The Lines In My Hand; tutti pezzi dove il “picchiatore” Axenrot (spesso additato dai fan come poco adatto alle sonorità di casa Opeth) sembra trovarsi più a suo agio. Ma non è esattamente così, perché le sorprese arrivano soprattutto dallo stesso drummer svedese, capace anche di deliziarci con un tocco delicato ed elegante che ben si sposa con le parti più lente e riflessive (il suo lavoro sulle ritmiche jazzate della splendida Nepenthe è solo uno dei tanti esempi a disposizione). La sezione ritmica risponde quindi più che bene ai “nuovi stimoli”, grazie anche al basso di un Mendez in grande spolvero. Il tutto è corredato dall’ottimo lavoro dell’ormai ex-tastierista Per Wiberg (essenziale per quanto riguarda il lato atmosferico della musica) e dalle chitarre di Åkesson e dello stesso Åkerfeldt, quest’ultimo autore anche di una prova dietro al microfono a dir poco perfetta.
Molti dei brani a disposizione non garantiscono un impatto immediato, promettendo però delle vere e proprie soddisfazioni dopo una buona dose di ascolti, altri invece, pur non essendo diretti e coinvolgenti, riescono a farsi apprezzare anche dopo un paio di giri nel lettore. Nel secondo caso è doveroso fare riferimento alla bellissima Folklore (il finale è semplicemente da brividi) e Pyre, quest’ultima addirittura disponibile come bonus track per i possessori della limited edition.
Un disco che è come il buon vino: va assaporato con calma e, magari, ha bisogno anche di “invecchiare” un po’. Heritage, per essere compreso in pieno, necessita di continui e attenti ascolti, atti soprattutto a far emergere, poco per volta, ogni sua sfumatura. Un disco che, nel modo più assoluto, non è adatto a chi vuole tutto e subito, ma che ha bisogno di tanta, tantissima pazienza per essere compreso.
Angelo D’Acunto
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Tracklist:
01 Heritage
02 The Devil’s Orchard
03 I Feel The Dark
04 Slither
05 Nepenthe
06 Haxprocess
07 Famine
08 The Lines In My Hand
09 Folklore
10 Marrow Of The Earth
11 Pyre (Bonus Track)
12 Face In The Snow (Bonus Track)