Recensione: Hermeticus
Nove anni.
Tanta è stata la distanza che separa quest’ultimo lavoro da “V.I.T.R.I.O.L.”, ultimo album in studio dei blacksters pugliesi Dewfall.
In nove anni posson succedere moltissime cose, la vita può prendere direzioni completamente diverse e, un qualsiasi musicista che abbia davvero a cuore la sua arte, può in tal periodo espandere completamente il proprio modo di porsi al prossimo espandendo o modficando radicalmente il proprio linguaggio: e ciò è quello che, almeno credo, sia successo nel caso di “Hermeticus”, dato che stiamo parlando di un platter che trasuda maturità compositiva da qualsiasi punto di vista lo si analizzi. Il sound Dewfall si è mantenuto sì gelido, ma i suoi portatori hanno incorporato nel verbo della propria creatura un senso di epicità altamente personale, radicato com’é nei meandri della loro natia Puglia, sfoderando un concept album appassionante e mai banale, basato sulla storia di Federico II di Svevia e sul mito esoterico di Castel del Monte, suddividendo il tutto in due parti distinte quali ‘Vivet Draco Magnus’ (che comprende al suo interno i primi quattro brani della scaletta) e ‘Vitae Mortisque Mysterium’ (con gli ultimi quattro brani degli otto totali che comprendono l’opera) allo scopo di rendere ancor più avvincente il tutto.
Le influenze principali, che chiaramente si sentono evidentemente, ricalcano il sound tipico del Black Metal scandinavo prima maniera, prendendo ora maggiormente spunto da quello tipicamente svedese (un brano come ‘Apud Portam Ferream’ mostra moltissime influenze tipiche del sound Dissection che fu), ora da quello tipicamente norvegese (l’apripista ‘The Abomination Throne’ è perfetta in tal senso, dato che in molti punti mi ha ricordato un mix di certe cose degli Enslaved sia attuali che passati), ma senza mai dimenticare di porre innazitutto un marchio di fabbrica definitivamente personale al tutto: i Dewfall di oggi sanno miscelare benissimo le carte con cui porre il loro gioco al cospetto dell’ascoltatore, sfoderando un sound d’impatto, contraddistinto da una produzione pressochè perfetta (completamente in sincrono con tali sonorità come raramente mi sia mai capitato di ascoltare negli utlimi tempi, senza però risultare derivativa o classicistica) e un senso di misterioso folklore che avvolge ogni singola nota dell’opera, rendendo così ogni singolo ascolto del tutto particolarmente stimolante. Nota di menzione anche all’artwork, completamente devoto al ruolo di ‘Black Metal Opera’ che un album quale “Hermeticus” riveste.
‘The Eternal Flame of Athanor’, quinto brano in scaletta che apre la seconda parte del lavoro, mostra in maniera più prepotente del solito le sfumature folk ed ambient del lavoro, rendendo da qui in poi tutto il sound della seconda parte del lavoro maggiormente improntato su sfumature rigorosamente di stampo Heavy e Melodic Death/Black (‘Moondagger‘ è fantastica in tal senso), rispetto alla sfuriate classicamente Black maggiormente presenti nella prima parte. Da non fraintendere: il suono di base è sempre classicamente Black, ma incorpora alcuni elementi che han fatto sì capolino nella prima parte del lavoro, ma con minore prepotenza. ( – O almeno questo è il feeling che ho avvertito nel corso degli ascolti successivi, a livello puramente di sensazioni! – Nda ) Notevole anche la presenza di un brano quale ‘The Course to Malkuth’, che ci mostra il lato più battagliero e violento della formazione pugliese, violenza che esplode definitvamente nella conclusiva ‘Apostasy of Hopes’ fino a chiudersi in quel mare di sussurri e saliscendi ambient che, nella parte finale del brano, mettono la parola fine al platter.
Giunti alla fine, è facile rendersi conto che siamo al cospetto di otto capitoli magistralmente interpretati (grazie anche ai contrbuti vocali di V’gandr – Helheim/Taake – e Davide Straccione – Shores of Null – ), con la voce di Vittorio Bilanzuolo in grado di sfoderare una dinamica stilistica eccezionale ma allo stesso tempo inattesa da parte di un vocalist dal registro vocale improntato unicamente su vocalizzi estremi, il basso di Saverio Fiore che a tratti dimostra che un quattro corde non è solamente un mero strumento di accompagnamento ritmico e con le chitarre di Flavio Paterno e Niko Lucarelli che sfoderano riff di sicuro pregio e carisma. Il tutto ovviamente senza dimenticare l’apporto percussionistico ‘fantasiosamente lineare’ (basico come andamenti, ma ricco di ampi particolari dinamici) del batterista Antonio Grassi.
Una band in gran spolvero, che pare finalmente aver trovato la sua dimensione d’ispirazione ideale, dimostrando così tutto il proprio potenziale in un’opera di cui, sicuramente, il buon Federico II ne andrebbe altamente fiero. Un album di elevata caratura che non stanca nemmeno dopo ripetuti ascolti, ma che si rivela sempre di più ad ogni successivo passaggio all’interno dei nostri padiglioni uditivi. “Hermeticus” è quindi, a conti fatti, un acquisto praticamente obbligatorio sia per i puristi del genere che per gli amanti delle opere estreme maggiormente stimolanti e complesse.
Consigliato.