Recensione: Hic Sunt Leones
A tre anni di distanza dal discreto The Warning After tornano sulle scene i piemontesi Highlord. Formazione che, agli inizi del nuovo millennio, grazie a dischi del calibro di When the Aurora Falls… e Breath of Eternity, si impose come uno dei punti di riferimento del movimento power, che proprio in quel periodo imperava in territorio italiano. Certo, se analizziamo la carriera della band, da quegli anni a oggi di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e la formazione di Torino si è trovata vittima di ripetuti cambi di lineup, tanto che nessuno degli attuali membri fa parte della compagine che esordì nel 1999. Inoltre, nel corso degli anni gli Highlord hanno cercato di evolvere il proprio sound, nel tentativo di allontanarsi da un movimento che imponeva determinati cliché, cercando di mettere in evidenza la propria identità artistica. Una scelta che se da un lato portò alla realizzazione di quello che, almeno per chi sta scrivendo queste righe, risulta tutt’ora il loro miglior lavoro, un certo Medusa’s Coil edito nel 2004, dall’altro, non venendo accettata dai fan della prima ora, allontanò consensi. Da lì in poi la formazione di Torino continuò il proprio percorso evolutivo, arrivando con il lavoro targato 2013 a una proposta che può essere descritta come un heavy melodico con influenze prog e power. Un percorso che diede però alla luce dischi incapaci di raggiungere l’ispirazione trovata nel già citato Medusa’s Coil, album suonati con una perizia tecnica invidiabile ma incapaci di coinvolgere l’ascoltatore dall’inizio alla fine.
È inevitabile quindi che il nuovo Hic Sunt Leones, edito per la prestigiosa Massacre Records e primo album realizzato senza lo storico chitarrista Stefano Droetto, abbia attirato su di sé i riflettori. Un disco che, sia per il nuovo e importante contratto discografico che per i focali avvicendamenti avvenuti in lineup, potrebbe rappresentare un nuovo inizio per gli Highlord.
La band di Torino è conscia di questo importante passaggio e punta a fare le cose in grande. Il processo di mastering di Hic Sunt Leones viene infatti affidato alle sapienti mani di Tony Lindgren presso i Fascination Street Studios (Symphony X, Marty Friedman, Dragonforce, Opeth, Arch Enemy) e il risultato si fa sentire eccome, regalando al nuovo lavoro una delle migliori produzioni mai avute dagli Highlord. Per l’occasione vi è inoltre la collaborazione con due ospiti d’eccezione: Linnéa Vikström dei Therion e Apollo Papathanasio, attualmente in forza agli Spiritual Beggars, si alterneranno al microfono con Andrea Marchisio rispettivamente in One World at a Time e Let There Be Fire.
Entrando nel dettaglio del disco, va subito segnalato come con Hic Sunt Leones gli Highlord abbiano deciso di indurire la propria proposta rispetto agli ultimi capitoli. Sia chiaro, stiamo sempre parlando di sonorità heavy-power in cui la melodia ricopre un ruolo importantissimo, ma la nuova fatica risulta sicuramente più aggressiva rispetto ai precedenti full length. Il nuovo lavoro si apre con l’intro Time for a Change, il cui titolo sembra una chiara dichiarazione d’intenti rispetto al recente passato. Tocca poi a One World at a Time aprire effettivamente le danze, traccia insignita del ruolo di singolo apripista del disco. La canzone si rivela come uno dei punti più elevati dell’album, facendo immediatamente comprendere quali saranno le sonorità che incontreremo in questo ottavo lavoro in studio della band torinese. Ci troviamo al cospetto di una una moderna power track in cui fanno capolino vocalizzi growl. Una canzone sorretta da una ritmica incalzante pronta a esplodere in un ottimo refrain ben interpretato dal bravissimo Andrea Marchisio. Segue poi un altro highlight dell’album, la splendida Be King or Be Killed, che prosegue sullo stesso sentiero citato poc’anzi, mettendo in mostra un nuovo ritornello strappa orecchi. Questa doppietta iniziale delinea i tratti caratteristici dei nuovi Highlord, dove la prestazione dei singoli risulta ispirata e convincente. Marchisio alla voce e Pellegrino alla batteria si confermano due valori aggiunti per il sound della band, due musicisti mai troppo considerati. Il drummer, in particolare, sembra trarre giovamento da questa nuova dimensione, potendo suonare in maniera più incalzante e diretta. I nuovi innesti, Marco Malacarne alla chitarra e Davide Cristofoli alle tastiere, si dimostrano perfettamente integrati nei meccanismi del quintetto. Il primo sfoggia un’ottima tecnica, puntando in particolare sulla fase solistica, mentre il secondo riesce a creare un tappeto sonoro ben strutturato, capace di diventare il vero collante nella struttura delle singole track. Un lavoro mai invadente ma sicuramente efficace nell’economia del platter.
Ma gira tutto alla perfezione nella nuova fatica griffata Highlord? Non proprio. Dopo l’ottima e azzeccata doppietta iniziale, Hic Sunt Leones diventa discontinuo e presenta alcuni capitoli incapaci di coinvolgere come le prime due track, per poi risollevarsi nel finale. Incontriamo così alcune tracce che risultano meno ispirate, in particolare quando la band solleva il piede dall’acceleratore. È il caso della già citata Let There Be Fire, che si muove su binari più classici rispetto alle canzoni che l’hanno preceduta e a cui manca quel qualcosa per lasciare traccia di sé nell’ascoltatore.
Cosa rappresenta, quindi, Hic Sunt Leones per gli Highlord? Può essere considerato come un nuovo inizio? Se dovessimo considerare esclusivamente i cambiamenti in seno alla lineup, sì, l’ottava fatica della band torinese, visto l’abbandono del fondatore Droetto, rappresenterebbe sicuramente un nuovo inizio. Musicalmente parlando, invece, Hic Sunt Leones appare più come un disco di passaggio, un lavoro ponte tra l’ultima incarnazione della band e il desiderio e la voglia di appesantire il proprio sound. Un platter che servirà sicuramente al quintetto per comprendere le proprie intenzioni e affinare al meglio la propria proposta, che al momento rimane ibrida. Forse, un paio di tracce in meno avrebbero donato sicuramente maggiore compattezza a Hic Sunt Leones, full length i cui capitoli migliori, come già detto in fase di analisi, risultano quelli in cui gli Highlord puntano maggiormente su sonorità più dirette e veloci, senza mai dimenticare la melodia. Proprio in questa dimensione la compagine piemontese sembra essere a proprio agio, permettendo a Pellegrino di picchiare le pelli e usare la doppia cassa come sa fare, dando la possibilità a Marchisio di interpretare maggiormente le singole song, tracciando strofe più aggressive e ritornelli melodici che si stampano subito in testa, ben accompagnato dalle tastiere di Cristofoli.
Hic Sunt Leones è quindi un platter che rappresenta la voglia di cambiare, un lavoro che pone le basi per quella che sembra essere la nuova evoluzione della band. Un album di transizione che, inevitabilmente, conterrà qualche momento meno ispirato e come tale deve essere considerato. In attesa della prossima prova sulla lunga distanza, non rimane che inserire il disco nello stereo, chiudere un occhio sui capitoli meno riusciti e gustarci quelli capaci di lasciare un segno del proprio passaggio.
Marco Donè