Recensione: Hierarchies

Dalle pance dei Dwelling Below e Acausal Intrusion nascono, l’anno scorso, gli Hierarchies che, subito, danno alle stampe il loro debut-album, omonimo.
I succitati gruppi sono noti in ambito underground quali paladini del death dissonante. Logico, pertanto, aspettarsi qualcosa di simile per “Hierarchies“. E infatti così è.
Tant’è che trovare qualcosa che somigli al death, nel disco, appare impresa ardua. Ma non bisogna farsi ingannare. Nonostante la tremenda complessità delle trame musicali, da esse fuoriesce, come se fosse fumo, odore di death, appunto. Jared Moran, voce e batteria, canta, si fa per dire, in maniera sguaiata ma del tutto riconducibile ad alcune delle più ardite linee vocali che circondano il metallo della morte.
Udibile con chiarezza, invece, nel lavoro della chitarra quando esegue la sezione ritmica. Quando, cioè, accompagna gli astrusi voli pindarici delle note più alte. I riff sono duri, granitici, complessi, multiformi, mai uguali a se stessi; ideali per sovrapporli alle tremende disarmonia della parte solista. Anche la sua pesantezza si fa sentire, soprattutto quando, improvvisamente, il ritmo prende quota per sfondare la barriera dei blast-beats (“Entity“).
Senza dimenticare il lavorìo del basso di Anthony Wheeler, non molto in primo piano ma che, se ascoltato con attenzione, rivela l’esistenza di una spinta energetica non indifferente. Soprattutto quando la chitarra di Nicholas Turner se ne va per i fatti suoi a girovagare per l’etere con le note più inascoltabili che esistano al Mondo o quasi.
Un panorama che potrebbe apparire desolante, quello che si osserva mentre “Hierarchies” s’insinua nel cervello. Cosa che non è. Anzi, il contrario: le assurde movimentazioni strumentali del combo statunitense generano visioni caotiche di mille tinte scure che identificano il progetto del combo stesso come estremamente lisergico.
L’immersione completa negli otto brani che compongono l’LP è all’inizio fastidiosa. Dopo poche note, infatti, l’istinto di conservazione porta a voler tappare le orecchie. Resistendo al primo impatto, invece, si spalanca un paesaggio ben definito nei suoi particolari, giacché i Nostri obbediscono senza dubbio a un gran lavoro di composizione alle spalle. Circostanza che emerge a mano a mano che si prosegue con i passaggi del disco.
A proposito di canzoni, pur richiamando al 100% lo stile del platter, risultano assurdamente ordinate e messe bene in ordine, ciascuna con le sue peculiarità. Ordine nel disordine, insomma. Il che non è un’operazione per nulla semplice e immediata. Con la conseguenza che “Hierarchies” non è affatto un prodotto elaborato tirando i dadi e traendone le note. No, per niente, poiché è sono proprio le song a dimostrare un songwriting folle, certamente, purtuttavia masticato con cura, prima di ingoiarlo ed espellerlo per dar vita al full-lenght.
Song come “Twilight Tradition” – presumibilmente la migliore del lotto per via di una buona dose di aggressività derivante da un poderoso riff portante, sul quale divaga tutto il resto sì che il risultato sia come sempre disarmonico ma totalmente devastante – mostrano che il terzetto a stelle e strisce riesce a cavarsela in ogni frangente con una decisa sicurezza dei propri mezzi, dato l’alto tasso di tecnica in gioco. Non manca qualcosa di più… atmosferico, come l’intro arpeggiato di “Abstract“, anche se di poca durata, presto macellato da un rifferama spaventosamente devastante; nonché aspro, tagliente e, come sempre, ben piantato sui piedi.
Letto sopra, è chiaro che “Hierarchies” non sia un lavoro per tutti i palati. Anzi, l’estrema passione dei suoi creatori lo rende un’opera ostica ed estremamente difficile da districare per coglierne il nucleo. Però, una prova si può sempre tentare…
Daniele “dani66” D’Adamo