Recensione: High On Fire
La data di Bologna di pochi giorni fa (25/06) è capitata proprio al momento giusto e ci ha regalato poco più di un’ora di assalto sonoro senza pause né fronzoli. Gli High On Fire sono in tre ma dal vivo sembrano 18; suonano una musica che è pura furia, sudore, deserto, fumo e magma contornata dall’inconfondibile voce del disponibilissimo Matt Pike che ha una sigaretta elettronica sull’amplificatore pronta ad essere sfruttata in ogni secondo libero tra un pezzo e l’altro. Abbiamo quindi avuto modo di testare live la resa di una manciata di pezzi del neonato Luminiferous e il risultato è stato ottimo e ovviamente devastante. Non ci sono qui novità rilevanti nel sound della band e decisamente è un pregio; gli High On Fire si possono tranquillamente vantare di non aver mai sbagliato un disco ma, stranamente, non godono appieno del successo che meritano. Come possiamo catalogarli? Come possiamo descrivere al meglio ciò che suonano? Li si inserisce nello stoner ma non è una completa verità, solo nel loro sound prevalgono più elementi di questo genere rispetto allo sludge, ad esempio. Roba per archivisti in ogni caso e per gli amanti delle discussioni metalliche da bar sport; in questa sede quello che conta è il disco, e Luminiferous è un’opera selvaggia e micidiale, che potrà piacere o non piacere ma che di certo non farà prigionieri! Fin dalle prime note di The Black Plot si inizia a scapocciare grazie ad una proposta che dire esplosiva è riduttivo, groove e quel piglio di apparente ignoranza che qui crea un connubio vincente e soprattutto convincente. Gli High On Fire sono brutti, sporchi e cattivi (gran film, guardatelo) e non hanno nessun problema a dirlo. Il loro sound deve molto ai Motorhead e perché no, anche agli Sleep; in ogni loro disco si sente che la mano è la stessa che compose quell’inenarrabile capolavoro dal nome Jerusalem o Dopesmoker a seconda delle preferenze. Il riffing è quindi basato quasi esclusivamente su pentatoniche e supportato da un suono grassissimo, ciccione, corposo e graffiante; sembra che la Les Paul del buon Matt stia prendendo a calci l’altoparlante di qualsiasi impianto si stia usando fino a ridurlo a un cumulo di macerie assieme ai padiglioni auricolari dell’ascoltatore che gode a profusione volendone sempre di più. La sezione ritmica ad opera di Jeff e Dez è un macigno: nervosa, imprevedibile, zeppa di rullate e sempre al servizio del pezzo. La forza del terzetto, oltre all’impatto, è la capacità di sfoggiare un songwriting mai banale nonostante il suo suonare un’acqua calda scoperta tantissime altre volte; di certo chi si approcciasse alla band per la prima volta non andrebbe di sicuro in cerca di cose sofisticate, arzigogoli o chissà quali innovazioni. Puro, semplice e onesto macello, sono queste le carte giocate dagli High On Fire e si rivelano vincenti in un tavolo dove non c’è praticamente mai partita; sono davvero poche le band nel genere in grado di raggiungere questa intensità e questo livello di sporcizia dosati con raziocinio, cuore e passione. C’è bisogno degli High On Fire anche quando il vortice rallenta e tira fuori dal cilindro pezzi come The Cave, che si rivela presto uno dei momenti migliori dell’album nonostante il suo mood differente che vede protagonisti chitarra acustica, voce filtrata e un sound che più sanguigno non si può. Luminiferous è un disco caldo, desertico, spietato e dall’appeal di una stanza impregnata di fumo, sudore e alcool; è un maelstrom da cui difficilmente si può uscire indenni.
Concludendo, gli High On Fire ci consegnano l’ennesimo gran disco, che oggi più che mai risulta importante; in un mondo metallico sempre più ossessionato dall’immagine, dallo strafare e dall’essere molto spesso qualità fugace c’è sempre bisogno di persone che suonino per il gusto di farlo, divertendosi prima di far divertire e senza troppi giri di parole. Sul palco Matt annuncia il pezzo e si parte, parole zero, solo un sentito grazie alla fine del concerto; è giusto così, lunga vita agli High On Fire!