Recensione: High Reeper
Pesanti, oscuri, sulfurei, sabbathiani…
Con quattro semplici aggettivi, abbiamo già identificato in linea di massima la proposta degli High Reeper, interessante quintetto americano proveniente dalla Pennsylvania e dedito ad un genere musicale decisamente elitario, molto particolare e non proprio padrone delle charts mondiali quale è lo stoner / doom.
Laddove, il secondo dei due termini, sia da considerarsi in netta preponderanza espressiva nella ruvida e torrida ricetta apparecchiata.
Al di là di quanto il successo di vendite possa essere metro di giudizio valido nel giudicare una band, va dato atto alla coraggiosa Heavy Psych Sounds Records di saper scegliere i propri alfieri con oculatezza e senso critico, privilegiando la qualità e la personalità in luogo di qualsivoglia appeal commerciale.
Proprio perché gli High Reeper, band all’esordio discografico dopo la fondazione avvenuta nel recentissimo 2017, di qualità ne hanno un bel po’.
Se i già citati Black Sabbath, piuttosto che i Saint Vitus o i Trouble, avessero trascorso le vacanze in qualche arida spianata desertica, assorbendone gli odori, le atmosfere e gli effetti stordenti, avrebbero probabilmente poi buttato su disco qualcosa del genere.
Un ibrido corrotto, afoso, scalciante e canicolare di doom, in cui il blues più stordente e depravato si mescola a cadenze ipnotiche e allucinanti, definite dalle chitarre irrequiete di Pat Daly ed Andrew Price – non particolarmente virtuose o impegnate in chissà quale arzigogolo – alla ricerca costante di riff scavati nella pietra, circolari, martellanti. Di quelli che si stringono attorno al collo come un cappio, e poi però riescono a far ciondolare la testa senza soluzione di continuità.
Voce – quella del singer Zach Thomas – alla Ozzy Osbourne, ambientazioni cupe, chiuse e plumbee, accordi profondi ed appesantiti: gli High Reeper non sembrano proprio degli “allegroni” insomma, eppure il loro disco si lascia ascoltare più volte con una certa semplicità, offrendo l’immagine di un gruppo che ha idee chiare ed una struttura solida e compatta, focalizzata sull’obiettivo dichiarato di produrre un album da assaporare ad alto volume e con buona frequenza.
Non si tratta di materiale che può rivoluzionare il mondo della musica, questo no. Tuttavia ha una sua propria ragion d’essere, e sin dal primo passaggio si dimostra meritevole di segnalazione a vantaggio di chi, la fuori, cova un insano interesse per tutto ciò che possa odorare di anni settanta ed abbia una cifra artistica di buon spessore, in cui l’anima rock – venata di doom, stoner o blues che dir si voglia – sia assolutamente palpabile, concreta ed evidente.
Tra richiami ai già citati Black Sabbath (“Soul Taker”, “Reeper, Deadly Reeper”, “Weed and Speed”) la grinta che trasuda da brani più tipicamente hard rock / blues come “Chrome Hammer”, “Black Leather”, la conclusiva “Friend of Death” e le asperità doom disseminate in ogni dove, il debutto degli High Reeper arriva a compimento mettendo in vetrina un gruppo dal valore indubbio, probabilmente non destinato ad un grande pubblico ma comunque dalle doti evidenti ed oggettive.
Ancora una volta un plauso ad Heavy Psych Sounds Records, label dedicata a suoni tipicamente seventies nel cui roster è spesso possibile scovare musica interessante e di buona fattura.