Recensione: Hinthial
Prendete i migliori Children of Bodom; aggiungete cori e orchestrazioni, del cantato melodico à la Vintersorg, abbondanti spruzzate di prog e una spolverata di black metal. Mescolate vigorosamente per 39 minuti e servite il tutto in 12 porzioni. Otterrete così un piatto straordinariamente multicolore e saporito, adatto anche ai palati più difficili.
Un piatto tutto italiano – bolognese, per la precisione – chiamato Hinthial, terzo album degli Eva Can’t. Dopo l’esordio musicale di stampo black, il quartetto sperimenta nuovi ingredienti e giunge gradualmente a una nuova formula. Una formula che è molto simile a quanto si otterrebbe mescolando i citati Vintersorg coi due album dei megalomani finnici Wintersun, limando però gli stomachevoli eccessi che abbondano in entrambi i dischi di quest’ultima band. Qui ogni traccia è un mix esplosivo di melodia e assoli e orchestrazioni e cambi di tempo, mai gratuiti e mai fini a sé stessi.
Il disco è quasi un brano unico: la separazione tra un pezzo e l’altro è spesso pressoché inesistente e alcuni temi tornano ciclicamente. Non a caso ci troviamo di fronte ad un concept album, che ci parla del passaggio dello spirito umano (hinthial è una parola etrusca che ha proprio questo significato) dalla Terra all’Oltre. L’argomento è affrontato dal quartetto bolognese sia in modo personale sia – elemento di notevole interesse – adottando la prospettiva di artisti che, con il cinema e la letteratura, hanno già calcato questo cammino.
Superata la maestosa introduzione intitolata La morte sovrana, si incontra infatti Ai sepolcri, ottima opener piena di energia che rimanda naturalmente alla (quasi) omonima poesia foscoliana. In Cartesio, nella quale l’argomento è trattato da un punto di vista di uno scienziato, emerge per la prima volta in modo evidente il cantato melodico di Simone Lanzoni che a livello di timbro ricorda, oltre a quello dei già citati Vintersorg, quello dei nostrani In Tormentata Quiete di Teatroelementale (dei quali, non a caso, Lanzoni è entrato a far parte l’anno scorso). Un timbro cioè particolare, che come tale può piacere o meno a seconda dei gusti personali ma che è in ogni caso qualitativamente ineccepibile; ritornerà più volte durante tutto lo svolgersi dell’album, proponendo a volte lo stesso tema e dimostrandosi molto efficace soprattutto nei ritornelli. La dama in nero non gioca pedine bianche è una delle punte di diamante dell’album. Il brano, il cui titolo fa probabilmente riferimento a Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, parte senza soluzione di continuità dal brano precedente, tanto che è pressoché impossibile percepire la transizione tra i due. Da notare, oltre all’ottimo testo, un interessante innesto sonoro elettronico all’inizio e alla fine del brano; il resto del pezzo, che include un coinvolgente ritmo in levare, ricorda da vicino alcuni momenti vintersorghiani particolarmente felici, sia a livello musicale che tematico. Corpi di cera si evidenzia come un’altra punta dell’album, caratterizzata com’è da dei cori epici e da un ritornello che definire memorabile è poco. Da qui in avanti niente più sorprese, ma il livello qualitativo dei brani rimane costante e altissimo. A presidio del nulla alterna un veloce e spigliato ritmo iniziale, con bei ricami di chitarra, a parti più lente ed epiche. La solitudine di J.K. è un brano più lento rispetto alla media, all’inizio del quale si fa molto apprezzare il chiaroscuro orchestrale. La traccia seguente, Brema, è invece una delle più aggressive dell’album. L’incedere ritmico è molto secco e il testo si incastra alla perfezione coi riff e col preciso drumming; a chi ha qualche conoscenza nel black più politicamente militante ricorderà vagamente – ad esclusione ovviamente del ritornello melodico – certi pezzi dei nostrani Frangar. Da notare il devastante tremolo di chitarre e le mitragliate di doppia cassa verso i tre quarti del brano. La sola sostanza è, sorpresa delle sorprese, una ballad prevalentemente acustica dall’atmosfera che ricorda certi brani acustici dei cari vecchi Rhapsody, ma in chiave meno fantasy e più eterea. A distanziarla ulteriormente dai brani dei connazionali ci pensano anche delle strane percussioni sintetizzate e distorte, che a dire la verità non si attagliano perfettamente allo spirito del brano. La title track ritorna sui terreni già percorsi, con dei cori e delle orchestrazioni da manuale abbinati a sfuriate di chitarre, epici mid-tempo e fiati marziali. Un’altra perla. Non luceat eis è un brano dagli inserti a dir poco furiosi; ma in mezzo al blast beat che non perdona e al riffing tagliente trovano comunque posto dolci sezioni melodiche. Il finale del brano è una piacevole sorpresa. A chiudere l’album ci pensa invece Notte profonda e fioche stelle, con un toccante crescendo orchestrale, impregnato però di una nera e indefinibile inquietudine.
Terminato l’album ci si ferma inevitabilmente a riflettere. E ci si ritrova a chiedersi dove stia l’inghippo. Perché deve esserci, non è possibile che… ma no, non c’è. Certo, qualsiasi cosa è perfettibile e si può avere il sospetto che tutta la tecnica impiegata dagli Eva Can’t vada, a tratti, a discapito del sentimento; oppure si potrebbe rilevare l’eccessiva fatica che si deve compiere nel rintracciare il filo dell’album, nel trovare cioè una logica nella progressione musicale di brano in brano.
Si potrebbe, sì. Ma la verità è che Hinthial è un album straordinario sotto tutti i punti di vista: curato nei minimi dettagli, dall’ottima produzione, longevo in virtù della sua complessità, fresco, estremamente vario e bilanciato nelle sue componenti di riffing in-your-face e di raffinatezza melodica. I membri della band danno prova di una grande inventiva, che si rivela non solo nelle composizioni ma anche nei testi, elaborati e profondi. Altrettanto grande è la loro padronanza dei rispettivi strumenti (voci incluse), sfruttati al meglio grazie ai frequenti virtuosismi che tuttavia non vanno ad impattare negativamente il quadro d’insieme, che ne esce anzi rinforzato.
Ma basta parole. Se non avete ancora ascoltato Hinthial, mi domando che cosa stiate ancora aspettando.
Francesco “Gabba” Gabaglio
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