Recensione: Hit The Ground
Molti di voi si staranno domandando: ma chi diavolo sono i Grand Slam? Forse un nuovo gruppo hard rock? Per capire la travagliata storia di questa band bisogna fare un salto temporale di ben 35 anni circa, quando nel lontano 1984 un sempre più strafatto Phil Lynott in seguito allo scioglimento dei Thin Lizzy decide di arruolare il giovane prodigio della sei corde Laurence Archer per mettere insieme la sua nuova band: i Grand Slam. Sebbene il gruppo suoni in diversi festival e locali per scaldare i motori in vista di registrare il debutto, la stampa britannica si accanisce sulle sempre più precarie e visibili condizioni fisiche del famoso bassista/cantante irlandese, che nelle esibizioni appare gonfio e ammalato, tralasciando così la musica. Il progetto si arenò dopo solo otto mesi di prove e live. Phil continuò con la sua carriera solista, ma ormai il suo destino era indissolubilmente segnato dall’eroina e dal consumo di alcol. Lynott morì nel gennaio del 1986 in seguito ad una bronco polmonite causata dal consumo di droga. In seguito il nome dei Thin Lizzy entrò di diritto nella leggenda dell’hard rock e negli ultimi dieci anni si è tornato a parlare di loro attraverso il progetto dell’ex chitarrista americano dei Lizzy, Scott Gorham che insieme a Ricky Warwick (ex Almighty) ha unito le forze per formare i Black Star Riders, ottima band con un sound molto simile ai Lizzy.
Alla fine del 2019 arriva la notizia che non ti aspetti: Laurence Archer ha rimesso su i Grand Slam e pubblica finalmente il tanto atteso debutto Hit The Ground con vecchi pezzi rimasti nel cassetto e rispolverati per l’occasione, insieme a nuove canzoni composte da Archer nel corso degli anni. Il chitarrista inglese si avvale alla voce di Mike Dyer, bravo con il suo timbro che ricorda il compianto Phil, anche se però non troviamo il tastierista originale Mark Stanway, ex-Magnum. Iniziamo subito con il dire che questo disco si può considerare come il vero lascito del bassista irlandese, in quanto il sound è Thin Lizzy al 100%. Si parte con la nostalgica Gone Are The Days, un brano scritto da Archer nella sua residenza in Spagna anni dopo la dissoluzione della band. Notiamo subito che il fraseggio del biondo crinito chitarrista ricorda molto un John Sykes più melodico (Phil aveva un vero dono nello scovare giovani e talentuosi chitarristi). Si arriva poi a quello che per chi vi scrive è l’apice del disco, una nuova versione di 19 (inclusa poi in un suo album solista in una versione con molti sintetizzatori) molto più rock di quella originale. Appena parte il riff iniziale non possiamo stare fermi e il mood del pezzo è riconducibile alla dura e cattiva Cold Sweat contenuta nel leggendario Thunder and Lightining dei Lizzy. Il disco ha un’ottima qualità compositiva e non esclusivamente nelle tracce firmate a suo tempo dal fondatore dei Thin Lizzy, ma anche nelle recenti composizioni di Archer, che dimostra di essere un bravo discepolo, come nella bella title track. Ma l’altro colpo da novanta è rappresentato dall’impegnata Military Man, un brano intriso di quelle melodie agrodolci che hanno reso famoso il gruppo di Dublino in tutto il mondo, condito poi da un testo bellissimo e con una sezione centrale che solo Phil poteva comporre. Questa era la grandezza di quella band (purtroppo poco conosciuta dalle nostre parti), il saper mischiare hard rock britannico con melodie vagamente nostalgiche che riconducono alla tradizione folk irlandese. L’isola di smeraldo che ha vissuto per secoli sotto il dominio inglese e che nelle sue canzoni esprime tutta la sua sofferenza. Proseguendo con l’ascolto del disco ci imbattiamo nella già conosciuta Dedication, altro brano contenuto in un disco solista di Lynott e qui rivisitata in maniera impeccabile dai nostri. Il disco non ha momenti di stanca ed anzi nel finale piazza altri due brani di ottima fattura: il primo è Sisters of Mercy con i suoi sali scendi e la seconda è la notevole Crime Rate con il ritornello che diventa un vero mantra. Anche queste due scritte a suo tempo a quattro mani e che erano state registrate solo sotto forma di demo.
Laurence Archer in un’intervista di qualche anno fa dichiarò che, in quei concitati mesi finali del 1984, lui non sapeva se i brani che stava componendo con Phil sarebbero finiti sul debutto dei Grand Slam o invece nell’imminente album solista di Phil. Insomma, il caos regnava sovrano e spesso Phil non era nemmeno in grado di suonare in maniera dignitosa in sala prove. Una cosa è certa però, anche se la vita privata di Lynott era allo sbando e si sarebbe conclusa in maniera drammatica non molto tempo dopo, la musica che continuava a scrivere invece era sempre di ottimo livello. Hit The Ground è un bel biglietto da visita per Archer che ha dichiarato che questa è una vera e propria band che andrà in tour e registrerà altro materiale. Noi lo speriamo e incrociamo le dita di non dover aspettare altri 35 anni.