Recensione: Hollywood Cowboys
Fa male sentire i Quiet Riot così, fa male soprattutto a chi li segue dagli anni ’80 (ma gli esordi, con un paio d’album quasi dimenticati, risalgono alla seconda metà dei ’70). Il decennio delle felpe Best Company, dei film di Stallone campione di incassi al botteghino, del SuperTeleGattone in tv e della caduta del muro di Berlino, è quello che ha visto il maggior fulgore della band di Frankie Banali. A dirla tutta, neppure tutto quel decennio per intero, poiché le bocche storte iniziarono già con “Condition Critical“, il cui difetto maggiore era sostanzialmente quello di avere l’ardire di venir dopo “Metal Health“. Poi l’abbandono di Kevin DuBrow – semplicemente il miglior cantante che il gruppo abbia mai avuto – una manciata di album con Paul Shortino, quindi il ritorno di DuBrow, altri album (e tra questi qualcuno passato brutalmente inosservato…ma erano i terribili anni ’90), poi la morte di DuBrow, che simbolicamente diventa anche un po’ la morte della band, nonostante i Quiet Riot e soprattutto Banali proseguano imperterriti a pubblicare materiale. L’ultimo periodo vede arruolato il teen idol James Durbin. “Road Rage” nel 2017 arriva accompagnato da un minimo di curiosità nell’ambiente hard rock, quale sarà lo stato di forma dei Q.R. e come si rivelerà l’innesto di questo giovanotto con la faccia paciosa (e le sindromi di Asperger e Tourette), che cerca di fare il duro a colpi di denim and gel in mezzo a vecchietti attempati? La risposta purtroppo la conosciamo, “Road Rage” si rivela un disco modesto, per niente aiutato dalla performance di Durbin, anzi.
Evidentemente convinti, i nostri insistono sulla stessa strada, confezionando il qui presente “Hollywood Cowboys“. Apparentemente un disco Quiet Riot secondo tutti i crismi, artwork orrido come da tradizione, titolo stupidino, maschera da hockey in copertina. Tragicamente l’uscita dell’album coincide con la notizia che Frankie Banali ha un cancro al pacreas, con una diagnosi di appena sei mesi di vita. Si rincorrono i comunicati online che mostrano un combattente pronto ad esibirsi live nonostante tutto, mentre dichiara di non essere affatto disposto a rassegnarsi ad un simile epilogo. Onore allo spirito indomabile di Banali, spirito che non meriterebbe un’altra prova fiacca e insulsa come quella di “Hollywood Cowboys“. Cominciamo col sottolinearne gli aspetti positivi. Il drumming è valido, da vecchio del mestiere, con un feeling che proviene direttamente dai ’70s, la cosa migliore del disco. Il songwriting mantiene tutto sommato coordinate stilistiche familiari, senza colpi di testa o ibridazioni con spunti ed influenze contingenti, alla moda e/o astrusamente sperimentali. Almeno 3 canzoni – “Don’t Call It Love“, “Change Or Die“, “Insanity” – raggiungono la sufficienza (a stento le ultime due). Già così è evidente che le cose si mettono male. Se il drumming dà soddisfazione, il fatto che questo venga completamente fiaccato dal restante circo che ruota intorno allo sgabello di Banali irrita alquanto. La Produzione (proprio a cura dello stesso Banali) esalta voce e batteria, ma impasta e abbassa di tono la chitarra di Alex Grossi. Per carità, non che la cosa sia necessariamente un danno (fa impressione come l’album non contenga un solo assolo valido) ma certo, nell’economia complessiva di “Hollywood Cowboys” non diventa un punto a suo favore. Durbin è Durbin, che vi devo dire; per quanto mi riguarda è totalmente inadeguato ai Quiet Riot, si sforza e si ingrugnisce, sporca la sua vocina, fa il muso duro, ruggisce come può, ma pare sempre il leoncino Simba nell’atto di essere issato dal vero re della savana, Mufasa. Così il blasone dei Quiet Riot prova a sostenere e ammantare di altrettanta leggenda il piccolo Durbin, ma il ragazzo andrebbe bene per una boy band pop rock, si fa davvero fatica a digerirlo come voce dei Quiet Riot (… i Quiet Riot che furono di un animale come Kevin DuBrow). Ci sono dei pezzi, come il bluesettone “Roll On“, che fanno una certa impressione cantati da Durbin.
La “colpa” tuttavia non può essere del solo biondino, il quale per altro a registrazioni finite si è separato dai Quiet Riot per coltivare una carriera in proprio. Pensiamo lo scotto di non aver neppure dato il benservito al reginetto di American Idol, ma di essere stati mollati, come una ciabatta vecchia, una rugosa moglie attempata, come se fossero i Quiet Riot a non andar bene per Durbin e non viceversa. “Hollywood Cowboys” ha una miriade di problemi di per sé, a prescindere dalla Durbin-ciliegina sulla torta. Pare mixato male, le armonizzazioni dei ritornelli hanno un che di fuori fuoco, si percepiscono quasi delle stonature. Della mollezza della chitarra ho già detto, idem degli assoli. I chorus sono in stragrande maggioranza non convincenti, non trascinano la canzone, non la fanno esplodere (come un chorus istituzionalmente dovrebbe). Quelli di “Last Outcast“, “Hellbender“, “In The Blood“, solo per citare i primi che mi vengono in mente, sono brutti forte. Canzoni come “Wild Horses” o “Arrows And Angels” non vanno da nessuna parte, anonime e scialbe come una minestrina invernale senza brodo di carne. “Change Or Die” (il cui titolo avrebbe pur dovuto insegnare qualcosa….) va in dissolvenza mentre ancora tutto sta accadendo, una scelta incomprensibile, come se inavvertitamente in sala di registrazione qualcuno avesse abbassato il livello sbagliato. Si potrebbe sorvolare sul fatto che nel 2019 si metta ancora in scaletta un titolo come “Heartbreak City” (di cose del genere campano parassiti come gli Steel Panther), ma qui tutto concorre a ribassare e drammaticamente le quotazioni dei Quiet Riot.
Non so se questo sarà l’ultimo studio album della band, purtroppo i bollettini medici sembrano volerlo suggerire. Da grandissimo fan – e da essere umano innanzitutto, che si augura che un altro essere umano possa vincere una battaglia così crudele – spero con tutto il cuore che non sia così. Vorrei vedere un altro album con la scritta Q.R. in copertina e soprattutto vorrei che “Hollywood Cowboys” non fosse il commiato della band al mondo, sarebbe davvero triste per un monicker che ha dato così tanto all’immaginario rock ‘n’ roll. La discografia dei losangelini meriterebbe di essere rivista e ripercorsa, poiché non c’è il solo “Metal Health” a far tremare le vene dei polsi di chi ama questo genere. Augurando tutto il meglio a Frankie Banali e ai Quiet Riot, con onestà intellettuale devo ammettere che se “Road Rage” non contribuiva a riportare in auge il nome del gruppo, “Hollywood Cowboys” sortisce lo stesso effetto e, se possibile, lo infossa ancora di più. Paradossalmente questo fa scattare un senso di nostalgia ancora più grande nei confronti dei Quiet Riot, ai quali voglio un gran bene, anche se sembrano quel carissimo amico con il quale hai condiviso alcuni dei momenti più belli e memorabili della tua esistenza e che, dopo tanti anni che non lo vedi, pare aver buttato via la propria vita in mezzo a scelte sbagliate e incomprensibili.
Marco Tripodi