Recensione: Holocene
L’Olocene, ultima parte del periodo Quaternario, è l’epoca geologica più recente: iniziato circa 11.500 anni fa a seguito dell’ultima fase glaciale della Terra (glaciazione baltico-scandinava), al suo interno si è sviluppata interamente la civiltà umana moderna. Sebbene ufficialmente non sia ancora terminato, sono diversi gli scienziati (su tutti il chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen) che ritengono che l’Olocene si sia concluso con la prima rivoluzione industriale, lasciando il posto all’Antropocene, una nuova era geologica che si caratterizza per il decisivo impatto delle attività umane sull’ecosistema terrestre.
Le righe di cui sopra, il cui senso non è assolutamente quello di fare della spiccia scienza da salotto, hanno piuttosto la funzione di introdurre il nuovo lavoro del collettivo The Ocean (per la verità ormai da tempo sedimentatosi in una formazione stabile). Lo scorso 19 maggio, infatti, è uscito “Holocene”, il decimo full lenght dei tedeschi che prosegue nella tradizione, inaugurata ormai diversi anni addietro, di battezzare i propri lavori con il nome di epoche geologiche. Se in questo si ritrova un elemento di continuità rispetto al passato, una prima discontinuità si individua invece nella pubblicazione di “Holocene” da parte della Pelagic Records, etichetta tedesca specializzata in Sludge, Post-Metal e Progressive, e, quindi, nell’interruzione della quindicennale collaborazione con la Metal Blade Records del mitico Brian Slegel.
Ma la novità più significativa rispetto ai dischi precedenti è soprattutto di tipo stilistico e risiede nella preminenza degli arrangiamenti elettronici nell’economia dei brani. Infatti il gruppo che – come chi li segue sa bene – non lascia davvero nulla al caso, sembra ripartire da dove aveva lasciato, ovvero da quella “Holocene” (stesso titolo di questo nuovo LP) che chiudeva il precedente “Phanerozoic II: Mesozoic | Cenozoic” sulle note di un Progressive Post-Rock pacato e dalla decisa inclinazione elettronica.
Lunga la stessa direttrice, ma con un’enfasi ancora maggiore sui contributi elettronici (evidenti non solo negli apporti di tastiere e samples, ma anche del drumming) si dipanano i primi tre pezzi di “Holocene”: “Preboreal”, “Boreal” e “Sea of Reeds”. Nonostante si tratti di episodi non del tutto privi di crescendo di intensità, specialmente le prime due, si deve attendere “Atlantic” per ascoltare la prima esplosione Sludge/Post-Metal. Rasoiate ancora più intense e dirette, con un growl che si fa ora davvero profondo, si ritrovano in “Subboreal”, sempre alternate a quel Progressive Post-Rock elettronico che costituisce la spina dorsale delle nuove composizioni.
“Unconformities”, che con i suoi 9 minuti è la traccia più lunga dell’album, si caratterizza per il netto contrasto tra una prima sezione intimista e introspettiva, che spicca per l’ottimo contributo vocale di Karin Park (attiva sia come musicista solista che come componente degli Årabrot) e una seconda parte che procede tra accelerazioni Post-Hardcore e rallentamenti Sludge. Se “Parabiosis” non si distacca particolarmente dal mood elettronico del trittico d’apertura, “Subatlantic” si basa sull’efficace avvicendamento tra passaggi tranquilli e vagamente Dark ed altri in cui le chitarre sputano riffoni saturi, prima di deflagrare in tutta la sua potenza nel finale.
Una nota sui titoli dei brani che, con le sole eccezioni di “Sea of Reeds” e “Unconformities”, sono mutuati dai nomi delle 5 cronozone in cui viene suddiviso l’Olocene.
“Holocene” è l’ennesima prova convincente dei The Ocean: il maggior ricorso a soluzioni elettroniche non ne snatura la proposta, piuttosto la fa progredire verso direzioni nuove e interessanti. Vent’anni di attività sono tanti e una rigenerazione è talvolta necessaria: questo i Nostri lo sanno bene, considerando il loro interesse per l’evoluzione del pianeta.