Recensione: Holy Are We Alone
Per molti quello di Saeko Kitamae risulterà un nome sconosciuto, non a me che nella prima decade dei 2000 acquistai entrambi i suoi album, il debutto “Above Heaven, Below Heaven” (2004) e “Life” (2006), il primo pubblicato sotto le insegne di Armageddon Music, il secondo distribuito comunque da Armageddon ma ufficialmente uscito come produzione “indipendente”. L’interessamento della tedesca Armageddon dovrebbe già accendervi qualche lampadina in testa; alle spalle del microfono di Saeko infatti si schierava una rodata milizia di strumentisti di nazionalità prevalentemente germanica come Herman Frank (Accept, Victory, Sinner), Sven Ludke (Mob Rules) e soprattutto Lars Ratz e Michael Ehré (entrambi nei Metalium, oltre a parecchie altre band), i quali insieme alla Kitamae erano gli autori delle musiche del concept Saeko. Questo terzetto è rimasto tale dalle origini ad oggi anche se – ahimé – il povero Ratz è passato a miglior vita nell’aprile del 2021. Dopo tre lustri di silenzio (per la verità interrotti da un singolo pubblicato nel 2017, “Re-Membrance“) Saeko torna sul mercato discografico con un album di inediti e includendo in line-up, oltre al solito Ehré, anche due italiani, Alessandro Sala (Rhapsody Of Fire, Sinestesia) e Guido Benedetti (Trick Or Treat), quest’ultimo autore anche delle musiche assieme alla stessa Saeko (autrice dei testi), trasformando di fatto la band in un combo internazionale che mette assieme le bandiere di Giappone, Germania e Italia, praticamente le potenze del fatidico “Asse” (se tale rimando storico non evocasse pagine nere….). Con “Holy We Are Alone” invece il fine è decisamente più nobile e solare, un album di heavy metal coadiuvato dalla presenza e dalla personalità della volitiva Saeko. Che il disco intenda fregiarsi di un afflato cosmopolita è evidente fin dalla tracklist, basta infatti scorrere le undici tracce per notare che otto di queste hanno nel titolo il riferimento ad una nazione e che l’ultima canzone, posta non a caso in chiusura, si intitola “Universe: A verse To The Universe“, a rimarcare il carattere di universalità dell’intera opera.
I testi abbracciano varie lingue, dall’inglese al giapponese, dal tedesco al sanscrito, mentre per quanto riguarda il sound questo “Holy We Are Alone” si presenta come un concentrato di heavy metal dalle timide aperture prog, molto arioso, naturalmente ben propenso a spunti etnici, con qualche accelerazione di velocità, rotondissimo e morbido nelle sue melodie, nonché discretamente calibrato negli equilibri tra potenza, eleganza ed introspezione. La produzione a cura di Santura, chitarrista dei blackster Dark Fortress e dei Triptykon di Tom Warrior, ma pure rinomato produttore, esalta ogni singolo strumento con pulizia ed intensità, facendo rendere al massimo delle potenzialità il lavoro di Saeko e della sua band. Rispetto alla passata discografia dell’artista di Osaka questo terzo album pare una summa che intende evidenziarne la maturità raggiunta, sublimando la formula di Saeko e dandole una quadratura più focalizzata e centrata. Il lato debole di Saeko è sempre un po’ stato quello di percorrere strade generosamente frequentate da tante altre band prima di lei (segnatamente tedesche per quanto riguarda il metal di stampo power) dunque, al di là della qualità intrinseca del songwriting e del gusto soggettivo dell’ascoltatore, si poteva facilmente riscontrare la mancanza di quel quid di originalità tale da fare spiccare il nome di Saeko su altri competitor (difetto che per la verità ho sempre imputato anche ai suoi numi tutelari Metalium, Primal Fear e compagnia teutonica sferragliante).
Oggi, anno 2021, sotto questo aspetto qualche miglioramento c’è stato; intendiamoci, nulla che faccia gridare al miracolo ma l’apporto del “nostro” Benedetti rimodella il perno del sound su sonorità più italiane – ancorché dal respiro internazionale, come detto pocanzi – contribuendo a rendere più vario, articolato e meno prevedibile l’ascolto di questi 56 minuti. “Holy Are We Alone” è un buon album, che intrattiene a dovere e che, a suo modo, si aggrappa anche a qualche omaggio più colto, ad esempio con l’affacciarsi in scaletta di citazioni del canto marinaresco britannico “Drunken Sailor“, della canzone tradizionale delle Isole Hawaii “Aloha ‘Oe“, del “Canto dei Battellieri Del Volga“, senza contare il Flauto Magico di Mozart (l’aria della Regina Della Notte). Un disco che non farà la storia del metal e non verrà ricordato magari come uno spartiacque del genere (beh, accade al 99% degli album) ma che rimane agli atti come un frizzante florilegio di canzoni che possono destare la curiosità dell’ascoltatore soprattutto per quanto riguarda le sfumature orientali, variegate e di bel canto che Saeko sfoggia con una certa sicurezza. Fatevi questo viaggio tra Giappone, Siria, Gran Bretagna, Germania, India, Brasile, Hawaii, Russia e – in ultima istanza – l’universo intero. E se prima eravamo soliti definirci cittadini europei oggi possiamo proclamarci cittadini dello spazio, grazie al metallo ed al biglietto per una crociera sull’Enterprise in compagnia di Saeko Kitamae.
Marco Tripodi