Recensione: Hopium

Di Edoardo Turati - 23 Agosto 2024 - 11:30
Hopium
Band: Kingcrow
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Progressive 
Anno: 2024
Nazione:
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84

Tempus fugit scriveva il poeta romano e, infatti, basta voltarsi leggermente indietro per rendersi conto che sono passati già sei anni tra il nuovo disco Hopium e The Persistence, ossia l’ultima meravigliosa uscita dei Kingcrow.

Facciamo un velocissimo recap nel caso qualcuno ancora non li conoscesse (battetevi il petto tre volte). I Kingcrow sono un combo romano progressive (ma pensatelo con la mente aperta) fondata al tramonto degli anni ’90 dai fratelli Cafolla; dal 2010 con Phlegethon e l’arrivo di Diego Marchesi possiamo considerarli una delle migliori band a livello qualitativo e compositivo del panorama metal tricolore. Sono fautori di una musica raffinata, ricercata, elegante, mai banale e sempre mutevole nel corso degli anni e, invero, quella che stringiamo oggi tra le mani è una proposta relativamente distante dai primi Kingcrow.

Ma per capire bene quale sia la nuova vetta compositiva raggiunta, andiamo a dipanare la matassa sonora di Hopium districando i fili di ogni singolo brano.

La partenza è quantomai spiazzante e devastante; “Kintsugi” ci riversa addosso una tonnellata di elettronica ed un groove fuori di testa. Non c’è nulla di distorto o di pesante, la musica avvolge e abbraccia come la Luce di Mezzogiorno dipinta nel refrain. Il pensiero è quantomai inclusivo, il Kintsugi, infatti, è una tecnica di restauro giapponese nella quale si utilizza l’oro per sanare le rotture e le crepe dell’oggetto compromesso, donandogli una “nuova” vita andando proprio a valorizzare le imperfezioni e facendole addirittura risaltare; nel brano il messaggio è fortissimo: «Corpo e mente segnati da lividi, mostrali con orgoglio, sottolinea ogni imperfezione».

 

 

I Kingcrow rimangono su queste precise coordinate elettroniche anche con la seguente “Glitch”. Si percepiscono echi di Puscifer, in particolare nel cantato bisbigliato di Marchesi e la musica procede compassata e compassionevole nel viaggio introspettivo nella mente stanca e turbata del protagonista, crescendo nel finale in modo duro e martellante per sottolineare il rifiuto di arrendersi ai malfunzionamenti (glitch) cerebrali.

Con la successiva “Parallel Lines” invece i nostri tornano su lidi più puramente progressive a noi noti. Un mid-tempo ostinato e la voce ovattata ci collegano facilmente alla dimensione del brano. È un po’ l’istantanea della nostra società, corriamo sempre troppo vicini ma senza avere nessun punto di contatto proprio come due linee parallele. Una grande apertura melodica nel ritornello prova a donare residui di false speranze ma se è vero che due linee rette si incontrano nell’infinito, la fallacità dell’uomo invalida tale affermazione e i Kingcrow lo sanno bene, virando in conclusione nuovamente su toni cupi e sconfortanti. Ancora un ottimo brano. È il momento adesso di morbidezza e relax sonoro e ci pensa “New Moon Harvest” ad ammaliarci con i suoi colori pastello in cui la musica è solo una pennellata sullo sfondo della voce disincantata e soffice di Marchesi ma che lascia anche un po’ di spazio a un bel solo di chitarra sul finale del brano breve ma altamente empatico.

Siamo arrivati al giro di boa con il quinto brano “Losing Game” e per gli amanti dei parallelismi qui siamo al cospetto di una composizione con struttura tipica dei Riverside. Momenti misurati e sostenuti seguiti da feroci sfuriate con sferzate di rabbia pura anche se comunque contenuta nella gabbia del buonsenso. Bello, travolgente, coinvolgente e decisamente empirico nella sua immediatezza. Stesse vibes ce le restituisce anche la successiva “White Rabbit’s Hole” dove il synth torna a comandare con dosi massicce di elettronica iniettate nelle vene del pentagramma, ma questa volta sorrette anche da un muro distorto di chitarra e basso per regalarci un brano variopinto, unico e risolutamente fermo nelle convinzioni musicali dei Kingcrow di oggi.

Non a caso il viaggio continua con un altro stupendo pezzo, ossia “Night Drive”; l’apertura è semiacustica per concederci di guidare rilassati col braccio fuori dal finestrino aperto della nostra auto. Se musicalmente rimaniamo nel set compositivo apprezzato sino ad ora, quello che stupisce seppur nella sua brevità è il testo profondo e vivido nell’analogia del viaggio della vita con la ricerca infruttuosa di un sentiero percorso nell’effimera famigliarità della nostra macchina. È semplicemente poesia:

«Thin and worn out skin just like my wheels
Welcoming the wind like an old friend
Grant me just the chance to meet myself»

 

Si comincia a percepire un po’ di stanchezza realizzativa e “Vicious Circle” anche rimanendo un buon pezzo entra di diritto nel vortice iterativo della ripetitività perdendo fisiologicamente il diritto di giocare la carta del fattore sorpresa, messa in banco ad inizio partita dai precedenti brani.

E siamo così arrivati al momento di “Hopium”, che, oltre a dare il nome all’LP, è anche il brano più lungo… e diciamocelo subito, qui di metal c’è poco o nulla. La canzone è complessa e articolata, trasuda sofferenza in ogni passaggio ma tutto viene sottolineato ed elevato dall’onnipresente synth che decide cosa e come deve andare ogni sentimento esattamente come nei viaggi di Sherlock quando fumava il suo oppio lisergico e curativo. Certamente è il pezzo che necessità più ascolti, anche perché essendo particolarmente stratificato in profondità, si riesce a togliere un solo velo alla volta prima di mostrare il vero volto della sposa. In controtendenza la chiusura del disco i Kingcrow l’affidano alla struggente “Come Through” una ballad acustica davvero toccante ed emozionante che sembra musicalmente scollegata dal resto del disco ma che mantiene altresì nei testi quel filo di nostalgia, rabbia e speranza che ha contraddistinto tutte le scritture dei brani.

Questa la tracklist. Proviamo ora a tirare le somme a caldo, anche se stavolta sarebbe stato più proficuo un periodo medio-lungo per metabolizzare, digerire e assorbire la pietanza servita da questi fantastici musicisti. “Hopium” è un prodotto di assoluto valore, intenso, profondo nei testi, elegante e gratificante nella fruizione ma è risolutamente diverso da tutto quanto ascoltato finora della band capitolina.

Il progressive metal rimane una orgogliosa eco del passato, ma i Kingcrow oggi sono una band in grado di trasformarsi e sviluppare nuove sensazioni in bilico tra commozione, stupore e sbalordimento con una proposta quasi unica nel panorama metal moderno. Se non si fossero contratti e avviluppati nel finale del disco, restituendo quel senso di “già vissuto”, il voto sarebbe stato ancora più alto, ma questi Kingcrow fanno davvero venire la pelle d’oca.

«Find a way, there’s a new moon tomorrow, for today that’s how far we can go»

«Trova una via, domani ci sarà una luna nuova ma per oggi questo è quanto lontano possiamo arrivare».

 

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