Recensione: Horrors of the Black Mass
Ci sono voluti addirittura otto anni affinché i Ravensthorn tornassero sulla scena, dopo l’ottimo Hauntings And Possessions, uscito per la Hellion Records nel lontano 2004. Non so cosa abbia spinto i nostri a lanciarsi in un cd autoprodotto, il nodo focale è che lo spirito della band non sia cambiato. In realtà, già la copertina, pur non molto originale, sembra promettere bene.
Sin dal primo brano mi sono tranquillizzato: nonostante i cambi di line up e il tempo trascorso, i Ravensthorn sono quelli di sempre. Heavy metal classico, di chiaro stampo americano, con un’impostazione votata all’orrore che riporta alla memoria i lavori di Mercyful Fate e King Diamon, grazie anche alla prova vocale di Bill Jannusch, il quale alterna sapientemente toni medi ad acuti perforanti. The Ouija è un ottimo brano di apertura, veloce e d’atmosfera al tempo stesso, decisamente il miglior biglietto da visita che la band potesse fornire anche a chi non li conosce. Unico difetto è forse la produzione che avrebbe richiesto uno spessore maggiore. Wolf Witchery non è da meno. La ritmica serrata iniziale mi ha ricordato qualcosa degli ultimi Agent Steel, per poi sfociare in un classico brano Ravensthorn. Molto buona la progressione di chitarra nella fase finale della canzone. È con la successiva The Lament Configuration che si entra nel vivo dell’album. Già il tema trattato – Hellraiser – mi è molto a cuore e la resa sonora aiuta a immaginare cenobiti e corpi fatti a pezzi da uncini metallici. Chiude il pezzo un arpeggio cupo, che ci trascina direttamente alla title track, una delle canzoni più lunghe del lotto: più di otto minuti di metallo sulfureo in cui echeggiano memorie dei Sabbath più duri. Ancora una volta è la produzione a non rendere giustizia ai suoni, non dando il giusto risalto al lavoro della ritmica che risulta un po’ impastata quando dovrebbe essere granitica. Rimane comunque uno dei brani meglio riusciti dell’album, capace di mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore per tutta la sua durata, grazie a ottimi cambi di tempo e un’interpretazione vocale da brivido. Si passa ad atmosfere più rilassate con la malinconica For The Love of Jinx, anche questa molto buona, soprattutto nel ritornello, dove ritorna ancora lo spettro dei Black Sabbath. Si torna su ritmi più veloci con la successiva Come Walk With The Undead, forse un po’ in ombra rispetto a quanto ascoltato fino a questo momento. Chitarre davvero troppo in sottofondo nella seguente Castle Of Terror: un gran peccato perché la ritmica non sembra affatto male. Con un mix del genere, purtroppo spicca solo la voce di Jannusch. Segue la seconda suite del disco, Nightmares Reborn: sette minuti di pura atmosfera da brivido, con un ritornello invece più aggressivo che mi ha fatto venire in mente qualcosa degli Helstar. Comincio a pensare che la band americana sia ormai votata a brani più lenti e malinconici e la seguente Rosemary’s Baby non fa che confermare la mia teoria. Sicuramente più aggressiva della precedente, ma anche meno riuscita. Demon Cathedral è forse il pezzo che mi è rimasto più impresso sin dal primo ascolto: atmosfera e violenza si legano l’una all’altra creando un risultato ottimo. Segue lo stesso percorso The Wich’s Curse, in cui risalta ancora una volta la diabolica prova vocale di Jannusch. Chiude l’album Up From The Crypt, forse la canzone più old style delle dodici presentate.
Sicuramente un gradito ritorno che dimostra come gli anni a volte facciano davvero maturare. Il difetto maggiore, come già segnalato, risiede nel mixaggio che avrebbe di sicuro fatto spiccare l’ottimo lavoro svolto in sede di composizione. Consigliato a tutti gli amanti del metal classico più nero.
Mauro Saracino