Recensione: Hortus Venenum

Di Daniele D'Adamo - 7 Settembre 2024 - 17:00

Hortus Venenum“, e sono sette! Tanti sono i full-length partoriti da una band il cui nome è leggenda: Officium Triste.

Mito, che si identifica in tal modo grazie a una carriera nata in piena epoca di crisi-metal, e cioè nel 1994. Ma che, nonostante ciò, ha mantenuto intatto il flavour che permea e ha permeato i suoi dischi sin dall’inizio, lungo lo scivolare degli anni, arrivando sino a oggi con tutto il suo estesissimo bagaglio culturale nonché discografico.

Come accade nel 99% dei casi la formazione è cambiata, da quella natia, annoverando tutt’ora come componenti originari come Pim Blankenstein (voce), Gerard de Jong (chitarra) e Martin Kwakernaak (sintetizzatore). I quali, se ci riflette, occupano i posti-cardine di una formazione di metal o rock che sia. Il che spiega l’ostinata forza nel non dar seguito a mode e a pruderie evoluzionistiche.

Ma spiega, anche, una certa difficoltà a inquadrare correttamente il sound che ha caratterizzato trent’anni di vita artistica. Se si vuole essere precisi, non ci sono dubbi: ciò che si avvicina di più agli Officium Triste è il gothic metal. Non quello che si intende nel 2024, però. Quello, invece, che suonavano gruppi come Paradise Lost, Anathema, i connazionali Orphanage, per dirne alcuni. Metallo duro, granitico, lento, che scavava in profondità arrivando a toccare il cuore. Per evitare spiacevoli equivoci, allora, appare più corretto parlare di atmospheric doom, per “Hortus Venenum“.

Atmospheric doom che spesso pesca qua e là intagli di death metal, giusto per dare l’idea definitiva della forma della galassia Officium Triste. Si tratta di poca roba, che emerge quando il growling possente, rabbioso, cavernoso ma intelligibile di Blankenstein si accompagna agli istanti più massicci.

Lasciando perdere quest’ultima osservazione giacché marginale alla sostanza della musica dei Nostri, occorre focalizzare l’attenzione su uno stile che pesca dall’animo umano le emozioni forti, vere, che rispondono ai nomi di tristezza, languore, malinconia. Sentimenti puri, liberati dalle splendide armonie di brani come “Behind Closed Doors“, eccezionale song d’apertura che, con i suoi lenti, melodici, melanconici accordi, induce a socchiudere gli occhi per gustare meglio la pregiata pietanza che si mangia con le orecchie.

La musica entra dentro, a fondo. Senza possibilità di fermarla. Fermarla? Ma perché? Le fantastiche arie dell’LP fluttuano libere nell’aria per poi posarsi sulla pelle e quindi entrare nel corpo. Un’immersione che alla fine dell’ascolto, grazie al violino e al pianoforte che si abbracciano e si stringono come focosi amanti nell’introduzione alla magnifica suiteAngels with Broken Wings“, trova il sapore salato delle lacrime. Lacrime di Gaia, lacrime di chi possiede un carattere fondato sull’amore, sulla dolcezza, sulla bontà, sul perdono e sul rispetto di tutto e tutti.

L’energia emotiva insita in “Hortus Venenum” rappresenta un dono assai raro, che il combo di Rotterdam sparge a piene mani per il Mondo, nella speranza che ci siano altre anime vaganti, immerse nell’atmosfera creata dal platter stesso, si commuovano di fronte ai bellissimi assoli delle chitarre, ai decisi richiami delle tastiere e che alzino il capo per demolire l’arroganza dei prepotenti. La sezione ritmica, perfetta nel suo lento incedere lungo il pellegrinaggio dalle ridette “Behind Closed Doors” e “Angels with Broken Wings“, mostra un basso le cui linee sono rombanti, avvolgenti. A volte morbide, a volte coriacee.

Le canzoni sono solo sei ma sono più che sufficienti per incastrarsi, come in un puzzle, l’una accanto all’altra seguendo un unico filo conduttore, che altri non è che uno stile facile da gustare a un primo passaggio, difficile da interpretare a lungo andare per coglierne tutti i pregi, nascosti come le pietre preziose; impresa che soltanto le indoli maggiormente sensibili riescono a superare.

Per volare, per sognare, per morire.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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