Recensione: HoS
Gli House Of Shakira sono un gruppo hard rock /AOR di origine svedese attivo sin dal 1997, anno della pubblicazione di quello che per molti è tuttora il loro magnum opus, quel “Lint” (ristampato nel 2005 sotto l’egida della Lion Music) che, in tempi di magra per tutto il filone melodic rock, seppe comunque ben impressionare pubblico e critica.
Non si è mai trattato di una realtà dai grandi numeri: troppo lontana dal gusto imperante del mercato discografico di allora (e tutto sommato anche di oggi, a meno di colpi di coda veramente irrinunciabili), e tutto sommato troppo anonima, seppur piacevole, la loro proposta a base di melodie zuccherine e brani gioiosamente cantabili di palese ispirazione ottantiana. E a poco valsero anche le nuances africaneggianti con cui gli House Of Shakira cercavano di personalizzare il più possibile il loro sound: si trattava e si tratta tuttora di buonissimi e valenti “operai del AOR”, ben preparati e molto diligenti, il più delle volte, nello svolgere il compito senza particolari impennate di genio.
Rispetto ai vecchi tempi la prima differenza che salta immediatamente all’orecchio, inserendo nel player il nuovo “HoS”, è il cambio dietro al microfono: lascia il vecchio vocalist Andreas Elklund in favore del quasi omonimo Andreas Novak, già visto in azione con i progster conterranei Mind’s Eye. Se, da un lato, il nuovo arrivato ha un timbro (a metà strada tra Phil Collins e Paul Stanley) forse meno personale di quello del suo predecessore, tecnica, estensione e maggiori capacità interpretative, stanno tuttavia dalla sua parte.
Apre le danze “Brick Wall Falling”, e siamo già al cospetto di un’evidente dimostrazione di quanto precedentemente asserito: brano leggero, scorrevole e gradevole all’ascolto eppure, tutto sommato, non memorabile. La più torva “Changes In Mind” mette in mostra l’ottimo potenziale del nuovo singer e anche un guitar work insolitamente (ma piacevolmente) duro e cadenzato, per una band di norma dedita a composizioni molto più solari.
“Carry My Load” ha un andamento brioso, cori a rischio diabete e un assolo conciso e del tutto a tema, superata in quanto a riuscita dall’ottima “Fractions Of Love”, una semi ballata in cui risaltano, di nuovo, la grande cura per gli arrangiamenti e la padronanza della materia e in cui Novak, più che mai sulle tracce di Phil Collins, riesce a dare una marcia in più grazie ad una efficace linea vocale. Tra di esse si frappone “Zodiac Maniac”, l’unico brano in scaletta in cui si possono ri-sentire echi delle antiche fascinazioni esotiche del gruppo svedese, sia nel riffing orientaleggiante, sia nel percussionismo tribale verso il finale. Per il resto un altro più che buon esempio di melo-rock suonato e arrangiato con cura.
Proseguendo nell’ascolto, “Midnight Hunger” si rivela uno dei brani più veloci di “HoS”, con un che dei primi Gotthard, un’eccitante fast song con tutti i crismi, come lecito attendersi da gente che si è nutrita con profitto di 40 anni di hard rock, mentre “Endless Night” gioca sapientemente la carta del mid tempo: andamento cadenzato, chitarre distorte e un bridge in odore di ultimi Queen a tre quarti, a lanciare la volata alle evoluzioni solistiche di Mats Hallsensson e di Andres Lundström.
“All Aboard!” rialza la velocità e vira in territori affini ai Journey: melodia al top e grande prestazione di Novak, decisamente vicino alle tonalità proprie di mr. Steve Perry. Leggiadra e scanzonata la successiva “What Goes Around”, ottimo lavoro alla chitarra e cori ben orchestrati, così come in “I’ll Be Gone”, di nuovo sulle orme dei Gotthard più morbidi e soffusi, forse una delle migliori del lotto.
Molto Phil Collins-oriented “Voice In The Void”, valida come al solito da un punto di vista della cura e dell’arrangiamento, forse un po’ noiosa e non in grado di risaltare rispetto al resto, ma fortunatamente è il turno di “Lost In Translation”, l’unica ballata presente su “HoS”. Un vero splendore: ad un’apertura acustica dai toni pacati e piacevoli, segue, dal minuto 2 in poi, un assolo di quelli che lasciano il segno, pulito, essenziale e melodico, degno dei migliori White Lion. Può bastare.
Cala il sipario con “Out Of My Head”, la quale, con il suo tema un po’ alla maniera dei Queen di “A Kind Of Magic” e la notevole prestazione di tutta la band, pur non rappresentando un calo di tono, non appare ad ogni modo adatta al ruolo di “closing track”, per cui “Lost In Translation”, proprio in virtù della sua natura “atipica”, sarebbe risultata maggiormente azzeccata.
Che dire? Gli House Of Shakira sono una più che valida band “di genere”, non sono mai stati dei leader e hanno anzi aderito, con entusiasmo, a percorsi già tracciati da altri ben prima di loro. Inutile, dunque aspettarsi opere che possano aprire nuove strade all’evoluzione del rock: molto più sano, viceversa, apprezzare la verve e la convinzione con cui questi cocciuti svedesi fanno il loro mestiere. D’altro canto il punto debole di un album come questo risiede certamente nella longevità: l’originalità è di poco superiore allo zero, e le canzoni sono dannatamente semplici, perciò pur risultando un piacevole passatempo, difficilmente “Hos” potrà girare nel vostro lettore per mesi e mesi alla ricerca di chissà quale nuova sfumatura che vi eravate persi. Tutto questo, come detto, senza nulla togliere ad una band solida e piuttosto coerente con sé stessa, in grado di regalare comunque qualche soddisfazione agli appassionati.
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Line Up:
Andreas Novak – Voce
Mats Hallsenson – Chitarra
Andres Lundström – Chitarra
Basse Blyberg – Basso
Martin Larsson – Batteria
Tracklist:
01. Brick Wall Falling
02. Changes In Mind
03. Carry My Load
04. Fractions Of Love
05. Zodiac Maniac
06. Midnight Hunger
07. Endless Night
08. All Aboard!”
09. What Goes Around
10. I’ll Be Gone
11. Voice In The Void
12. Lost In Translation
13. Out Of My Head