Recensione: Hour of the Nightingale

Di Andrea Poletti - 16 Novembre 2016 - 0:00
Hour of the Nightingale
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2016
Nazione:
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83

18 Aprile 2016, magari non dirà nulla a nessuno questa data, magari nemmeno ci ricordiamo cosa abbiamo fatto quello stesso giorno, nulla di speciale probabilmente. Aleah Starbridge morì quel giorno a soli 39 anni di cancro, lasciando un vuoto musicale, lasciando un progetto come i Trees of Eternity e tutto ciò che a livello famigliare ne consegue. “Hour of the Nightingale” è stato registrato e concepito quasi per gioco, una ipotetica jam session nata tra Juha Raivio (Swallow the Sun) e la stessa Aleah anni addietro, dal nulla decidono di mandare avanti quel percorso iniziato con l’ospitata della bella Sud Africana sull’album “Third Moon” dei STS. Sperimentando, giocando e lavorando sulle linee vocali l’ospitata ha dato il la per una collaborazione vera e propria; nel 2012 i Trees of Eternity firmano un prematuro contratto con la AFM che offre al duo l’ccasione di far entrare in formazione di Fredrik Norrman (October Tide, ex-Katatonia), Mattias Norrman (October Tide, ex-Katatonia) e Kai Hahto (Wintersun, Swallow the Sun) per completare il tutto. “Hour of the Nightingale” venne ufficialmente registrato nel 2014, lasciato in silenzio sino ad oggi, quando dopo varie riflessioni Juha da trovato l’accordo definitivo con la Svart Records per regalarci questo unico, splendido, capitolo della loro saga. Un piccolo gesto ma un regalo enorme per lasciare alla storia una voce unica che ci ha salutato troppo presto. 

Please stay here with me
Just hold me while I bleed myself dry
See straight into me
Just look beyond the tears in my eyes

Il destino ci mette di fronte a dure realtà, avvenimenti che difficilmente riescono a regalare soddisfazioni e sorrisi, oltre il muro degli ostacoli ritroviamo la musica; quella fortunatamente non ci lascia mai, così questo piccolo diamante grezzo regala quell’ora abbondante che estranea e distoglie dai pensieri con dolcezza e grazia. Musicalmente parlando è impossibile non notare qualche discreta somiglianza con l’ultimo periodo creativo degli Swallow The Sun, parallelamente, in quell’ipotetico lasso temporale la creativtà ha preso vita favorendo la gestazione sia di “Hour of the Nightingale” che “Songs from the North”. Idealizzate per qualche istante la trilogia dei Finlandesi, estrapolatene il primo e il secondo disco senza cadere nel funeral doom del terzo e vedrete che entrambi i progetti si amalgamano verso un fine comune. Non v’è un mero copia e incolla di riff già conosciuti, questo mai, anche perché grandi band quali Draconian, i “fratelli” Doom:VS, gli October Tide e lievi tendenze ai Katatonia dei tempi antichi hanno fornito un valido bagalio storico. Una nebbia fitta che lascia intravedere questi alberi dell’eternità, sepolti nel cupo tepore della carne al freddo per innalzarsi verso il cielo; la voce di Aleah è l’arma vincente dei nostri, senza quel canto angelico non vi sarebbe alcun piacere, alcuna sensazione umana che non tenda alla marcia funebre. Il gioco di contrasti tra riffs corposi ed al tempo stesso delicati come carezze si allinea al meglio con la voce soave e pulita, commuove trafiggendo la carne come un coltello nel burro. Non ho la capacità di raccontare canzone dopo canzone; tutto è parte di un grande ed infinito insieme dove il gothic si allinea con quel doom scandinavo forgiando creatività, due parti di un grande essere vivente che respira autonomamente. Deve esistere, deve prevalere ed innalzarsi il senso di scoperta interiore, la scoperta che lascia intravedere Mick Moss degli Antimatter prendere le backing vocals su “Condemned to Silence” per lasciarsi cadere nelle foglie del tempo. Anche Nick Holmes compare sul finale con la prestazione dentro “Gallows Bird”, che indirettamente prende possesso dei territori di casa Paradise Lost (periodo “Draconian Times”), per caratterizzarli sotto una personalità mai troppo ricercata e costruita. Cavernoso, ostile e perentorio risuona in netto contrasto con la bella Aleah, quali due opposti che contrastano su terreni cimiteriali immersi nell’antico splendore. In aggiunta alle linee musicali è possibile riscontrare un grandissimo lavoro sui dettagli, quest’album infatti pur risultando di facile fruizione, vive nelle piccole peculiarità, negli angoli oscuri come i cori sussurrati dentro “A Million Tears” o il lieve cantico folk attraverso “Broken Mirror”. Piccoli sfumature che innalzano la qualità compositiva esponenzialmente; “Hour of the Nightingale” non necessita di molte parole a sproposito, necessità solamente di essere ascoltato col cuore senza pregiudizi.

Oh my love
Will me make it through this night?
Overshadowed by our minds

Una vita spezzata ha dato voce a uno dei dischi più delicati ma paradossalmente essenziali per tutti gli amanti del doom, quello di qualità, quello realizzato con il cuore e con la pura voglia di trasmettere una vita vissuta in onore della musica. Potremmo vederlo quale acustico, gothic, doom o qualsivoglia etichetta per poi non raggiungere in fin dei conti nulla, le etichette rovinanaon il piacere dell’ascolto puro. I Trees of Eternity hanno realizzato questo unico manifesto, un monolite che si innesterà nella sabbia del tempo e lascerà che la lacrima caduta al suolo non venga risucchiata dal terreno, quale monito per ognuno di noi. La morte è solo l’inizio e questo è l’incantesimo per avvicinarci ad essa.

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