Recensione: Houses of the Holy
Led Zeppelin. Questo nome è storico ed evocativo di un’intera scena musicale che, lungo l’arco di 30 anni e passa, ha condizionato lo scenario musicale hard rock conquistando sempre più larghe fette d’estimatori del genere. Brani come “Stairway to heaven”, “Black Dog”, “Rock’n’roll”, “kashmir”, “Babe i’m gonna leave you”, “Whole lotta love” (per citarne solo una minima parte tra i più conosciuti) sono stati oggetto di culto e “coverizzazione” da parte d’ogni band hard o heavy avvicendatasi lungo questi tre lustri di storia del rock. Questo già basterebbe, abbondantemente, a farne una sorta di mito intoccabile.
Tra gli albums che questo famosissimo combo britannico ha prodotto ve n’è uno che, sebbene non sia spesso citato dai più, è da considerare degno di nota. Si tratta di “Houses of the Holy”, disco uscito nel 1973 sotto la produzione di Jimmy Page.
Cominciamo dalla descrizione della copertina, raffigurante una serie di bambini nudi intenti a scalare una montagna rocciosa in direzione di un chissà quale antico santuario, in una magnifica alba (o tramonto a seconda dei punti di vista). Molto suggestiva, quindi, la presentazione grafica di questo progetto. Il disco si apre con “The song remains the same”, pezzo nel quale l’utilizzo da parte di Page delle chitarre acustiche è preponderante. L’impatto è molto gradevole e la track, proprio come il titolo, è la stessa di sempre almeno riguardo al classico sound zeppeliano. Ogni strumento è bene in evidenza è da notare Plant che come al solito da una prova magistrale delle sue doti vocali. Questa song si avvale principalmente di un’ottima sezione ritmica e pregevoli assoli che irrobustiscono la struttura portante del brano.
Si prosegue con “The Rain song”, rassicurante e dolce track nella quale si incrociano felicemente i lievi arpeggi del buon Page con discrete incursioni di violini. Il brano esplora tutte le sfaccettature di un romanticismo decadente che può assumere prima i contorni di una malinconica ballad per poi traformarsi in una sorta di tripudio concertistico pieno di brio nel quale ogni strumento ne amplifica la forza d’impatto. “Over The Hills and far away”, terza song del platter, ha un inizio acustico che potrebbe far pensare ad uno svolgimento della track in logica prosecuzione del discorso intrapreso nella precedente song, invece l’ascoltatore è colto da un brioso incedere ritmico con un riff portante, ovviamente tutto acustico, a farla da padrone. Molto coinvolgente poi la chitarra elettrica quando si innesta nel riffing portante del pezzo, creando pregevoli armonizzazioni fino ad un classico assolo “alla Page”. Passando a “The Crunge” la band esplora soluzioni melodiche inedite in un tripudio di ritmiche quasi sincopate, egregiamente eseguite da “Bonzo” Bonham, e d’inusuali armonizzazioni ad opera di Jimmy Page. Anche qui è da notare la bravura di Robert Plant nel modulare la voce appositamente per una struttura musicale particolare quale è quella presente in questo pezzo. “Dancing Day” approfondisce il discorso introdotto dal precedente brano ma con accenti meno evidenti ed incanalando la sperimentazione di nuove sonorità in un riffing più melodico. La track ha un incedere quasi ossessivo nel quale lo sforzo di costruire atmosfere di tensione nell’ascoltatore si fa evidente.
Un attacco potente di batteria ci introduce a “D’ye Mak’er”. Questa song è la più atipica che non abbia mai ascoltato, del repertorio zeppeliano, per tutta una serie di motivi: dall’uso delle ritmiche quasi ricalcanti il “reggae style” al modo tutto particolare di cantare di Robert Plant. In sostanza un brano in cui comunque è riconoscibile il sound tipico del combo britannico ma che sembra quasi non amalgamarsi con il resto delle song.
“No quarter”, settima e penultima track del disco, si avvale di un evidente uso dell’hammond per un brano che esplora atmosfere cupe e malinconiche. Questa song, dalle ritmiche lente e cadenzate, ha un incedere molto psichedelico e dimostra una volta di più la versatilità dei Led Zeppelin.
Il disco volge al termine e la conclusiva “The Ocean” riposiziona le coordinate musicali della band lungo un classico riff hard rock impreziosito dalla classe strumentistica d’ogni membro del combo. In questo brano, a differenza dei precedenti, Page fa un uso esclusivo delle chitarre elettriche mettendo di nuovo e più chiaramente in luce l’anima hard rock della band.
Questo disco, per concludere, sicuramente non è paragonabile ai grandi capolavori dello storico gruppo capitanato da Jimmy Page anche se sicuramente resta un importante tassello per comprendere lo “zeppelin sound”.
Tracklist:
1)The Song Remains The Same
2)The Rain Song
3)Over The Hills And Far Away
4)The Crunge
5)Dancing Days
6)D’yer Mak’er
7)No Quarter
8)The Ocean