Recensione: Howling, For The Nightmare Shall Consume
Quando i quattro Cavalieri dell’Apocalisse appariranno all’orizzonte del perenne tramonto, sarà l’inizio di un’attesa fine che riporterà in vita gli infiniti sguardi della storia per mostrarsi ad essi in tutta la sua magnificenza. La cavalcata divina non potrà esimersi dall’essere accompagnata da una degna colonna sonora che riempirà ogni goccia di dolore versata dalla rabbia celeste.
“Howling, For The Nightmare Shall Consume” è il perfetto soundtrack da sovrapporre alle raccapriccianti immagini di una fine annunciata riconducibile al celebre Trittico del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, più precisamente al pannello di destra: L’inferno musicale.
La fine di ogni cosa è di per sé un’avvenimento triste e toccante nel quale giace il seme dei ricordi che le lacrime umane sapranno far germogliare. Sboccerà da esso un fiore nero, il simbolo del romanticismo legato alla conclusione della vita, ad una serie di immagini e suoni che l’hanno contraddistinta.
Il nuovo album targato Integrity è dunque quell’entità idilliaca e dominante, ovvero l’insieme della miglior musica metal che racchiude un’era, che amalgama diversi generi e che esplode in un’infinità di enfasi assoluta.
L’Apocalisse è il tema su cui “Howling, For The Nightmare Shall Consume” poggia le proprie fondamenta: un’opera solida ed imponente che incanterà in termini di godimento, inventiva e duttilità sonora.
L’inizio della catastrofe è dettato da un sinistro messaggio registrato al contrario dal quale emergono vibranti chitarre e l’urlo disperatamente teatrale di Dwid Hellion. L’hardcore del passato è sempre radicato nell’anima Integrity ma si è arricchito di diverse influenze che lambiscono il più classico heavy-metal per poi ferirsi con punte acuminate di death ed infine guarire immergendosi in profondi e tiepidi laghi doom. Questo disco è un piccolo capolavoro stilistico, dannatamente magnetico, avvolto da una vitrea atmosfera nella quale i gelidi riflessi trafugano il calore delle anime.
L’inferno musicale si compone di numerose torture perfettamente illuminate che si disperdono via via sullo sfondo delle tenebre. Nessuno è immune alla sofferenza messa in scena magistralmente dal noto pittore ma soprattutto dai Nostri che, senza mezzi termini, registrano il suono di un’angoscia claustrofobica ed opprimente.
La veemenza con la quale ‘Blood Sermon’ ed ‘Hymn For The Children of the Black Flame’ trafiggono l’udito è celata nei particolari orribili del dipinto di Bosch, tanto dinamico quanto le stratificazioni sonore dei brani. Gli assoli frenetici e virtuosi di chitarra rimarcano il caos scatenato dei dannati che cercano una via di fuga trovando soltanto la cornice acuminata che delimita ogni singola traccia del disco. L’esempio più lampante di tutto ciò si riassume in ‘I Am The Spell’: pezzo rabbioso che prova a circoscrivere, in parte, l’ossessione riflessa in una repentina accelerazione ritmica che viene frenata nell’aspro finale. I richiami all’heavy anni ’80 degli Iron Maiden emergono dalle sabbie incandescenti di ‘Die With Your Boots On’ dalle quali affiora un coinvolgente giro di basso, affiancato da un palpitante guitar work dal sapore nostalgico. Occorre sottolineare che Domenic Romeo è strabiliante con qualsiasi strumento.
La notte sullo sfondo ed i fumi delle speranze che svaniscono nel bagliore di un incendio danno vita a ‘Serpent of the Crossroads’: un fuoco di eterno sentimento che affonda come una barca in mezzo all’oceano attorniata dalla solitudine più ruvida e graffiante; pezzo carico di pathos smisurato e disarmante.
Circondati da un immaginario deteriorato dalla decadenza, gli Integrity masticano lentamente le proprie vittime ed annegano i malcapitati nella follia di qualcosa che, fino a qualche istante prima, era realtà ed ora sta per svanire in un lampo. I ritmi rallentano e le atmosfere si incupiscono, i passi pesanti dell’Apocalisse lasciano profonde impronte: ‘Unholy Salvation of Sabbatai Zevi’ e ‘Reece Mews’ sono le orme nelle quali l’apatia e l’emozione giocano a fecondarsi.
C’è ancora il tempo di deridere coloro che, nonostante tutto, credono ancora di potersi salvare. I demoni giocano coi predestinati concedendo loro fragili sorrisi che si infrangono sulle note della rocciosa ed aggressiva ‘Burning Beneath the Devils Cross’, un’acuminata illusione dolorosa.
La magia ipnotica si cicatrizza sulla seducente ‘String Up My Teeth’ che si lascia attraversare dall’urlo femminile di una strega: un sabba così scintillante, dai contenuti così heavy, da evocare lo spirito dei Black Sabbath per condividerne il ricco e succulento banchetto di dannati.
La conclusiva title-track è la rifrazione della copertina di questo fantastico album: un demone vittorioso a cavallo che spiega le ali e fa la linguaccia all’ultima vittima di un esilarante ed inevitabile omicidio di massa. Il castigo divino termina con un fragore assordante nel quale rimbombano le urla infeltrite di un mostro errante che troverà dimora nei solchi di questo disco, spirale del vostro incubo.