Recensione: Human Awakening [EP]
EP poderoso come un macigno adamantino, quello composto dal duo cuneese formato da Paolo Luciano e Mariano Sanna, apripista di un imminente debut album (schedulato per marzo 2015) che lascia ben sperare.
Human Awakening è frutto della passione per la musica di due musicisti, ispirati da band thrash/death metal come Metallica, Megadeth, Slayer e Death, ma anche gruppi quali Dream Theater, O.S.I., Mastodon e Porcupine Tree. Il sound dei Kernel Generation punta, infatti, sulla pesantezza soffocante delle chitarre 7/8 corde, ma anche su sonorità viscerali e sapientemente decadenti, intessute di strumenti elettronici dalla sicura suggestività.
Cinque brani, di cui i primi tre strumentali, che anticipano il concept del full-length venturo, curiosamente basato ex post sulla profezia maya che nel 2012 ha fatto furori e continua a sembrare attuale. Di qui l’artwork cibernetico, a cura dello stesso Paolo Luciano, che accosta un profilo robotico sci-fi all’esoterismo mesoamericano.
Ma veniamo alla musica. Come introito solenne e inquietante “Cosmogenesis” (titolo che ricalca quello dell’album del 2009 targato Obscura) è d’impatto. Inserti di chitarra acustica, su un soundscape da colonna sonora, e poi prepotente apporto d’elettronica: l’ascoltatore è rapito in un mondo controfattuale, che inizia a delinearsi in contorni più concreti con le prime note di batteria e oscure linee di basso.
Dopo questo intro, “Age Of Aquarius” (una delle età eoniche, postulate, tra gli altri, dal padre dell’antroposofia Rudolf Steiner) attacca grintosa con terzine thrash e tappeti di tastiere, che rievocano le tinte à la “Comfortably Numb” di Awake dei Dream Theater. Il brano prosegue con continui cambi di tempo, synth ficcanti e un sound ipersaturo. I ritmi dettati dalla batteria sono ossessivi, in una vera e propria colata di metallo fuso.
Non manca di originalità “Welcome To Decadence”, con, in apertura, un atipico recitativo robotico (che ricorda il finale di Into the Electric Castle degli Ayreon). Si scandiscono parole apocalittiche sul futuro più che cupo della Terra («We will live like rats, / welcome to the new order… / welcome to decandence»). La traccia si snoda per un labirinto claustrofobico, dove chitarre droppate macinano note su note dall’abrasività totale. Le parti di tastiera si occupano della melodia e l’accostamento è più che riuscito. Siamo su lidi progressive, ma non djent, semmai space metal. Altra caratteristica del sound dei cuneesi: al termine del pezzo sembra trascorsa un’eternità e invece si è trattato di pochi minuti onirici.
“Harbingers Of Doom” fa presagire già dalle prime note semi-acustiche uno sviluppo articolato. Si passa da sonorità vicine ai Porcupine Tree ad altre che rammentano i Fates Warning. A metà del terzo minuto Paolo Luciano è anche al microfono: la sua prova si rivela a tratti anodina e priva di personalità; se la cava in veste di cantante, ma non osa (niente growl, scream o altro, anche questo limite o valore aggiunto dei Kernel Generation). Al quinto minuto compare un assolo di chitarra gustoso, mentre il refrain magnetico è orecchiabile con la ripetizione di un “never” ossessivo. Intriganti in fase d’arrangiamento gli inserti di carillon, che sfumano su rintocchi cupi di campane, come nella Symphonie fantastique di Berlioz.
La title-track dell’EP è una composizione possente, di certo non da relegare a mero sottofondo estemporaneo. I primi attimi del secondo minuto sono epici e trascinanti, tra i momenti migliori del disco. Dopo l’inizio in grande stile, verso la fine del terzo minuto tutto s’acquieta in apparenza: Luciano si trova a suo agio su linee vocali eteree e le bacing vocals di Sanna non stonano. Non c’è spazio, tuttavia, per una deriva lisergica prolungata: i Kernel Generation premono di nuovo sull’acceleratore e i ritmi si fanno nuovamente indiavolati e diretti. Le voci aggiuntive di Chiara Albertin donano un tocco lirico al refrain, mentre, sul finire del settimo minuto, non manca una breve parte strumentale. Un brano impegnativo, con linee vocali non sempre azzeccate e tanti spunti interessanti, a tratti offuscati da una ripetitività evitabile. L’ambizione dei testi si conclude in un inno ottimistico all’imprevedibilità del futuro («Many years after, or just tomorrow / love will shoot down this silence of hate»), ma le ultime note sono ancora dettate da lugubri rintocchi di campane.
In sostanza un EP che merita svariati e attenti ascolti, con un sound ibrido che miscela sapientemente furia metal ed elettronica. È ancora presto per sbilanciarsi sul futuro della band italiana, ma le idee in fase compositiva ci sono e si evidenziano chiare lacune solo nell’approccio al comparto vocale. Con qualche correzione in itinere e la giusta perseveranza il duo cuneese può raggiungere traguardi importanti.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)
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