Recensione: Human. :II: Nature

Di Roberto Gelmi - 29 Giugno 2020 - 10:32
Human. :II: Nature
Band: Nightwish
Etichetta: Nuclear Blast
Genere: Power 
Anno: 2020
Nazione:
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73

Let us sound a human paean
Come on in, the fire’s warm
Dull the blade and dance some more

(da “How’s the heart”)

 

I Nightwish sono una band che ce l’ha fatta, ha raggiunto il successo mainstream e oggi anche i Maiden riconoscono l’enorme potenziale del combo finlandese. Per arrivare tra i grandi nomi del panorama coevo ci sono voluti più cambi di pelle e la volontà di sapersi reinventare; inoltre, i singoli musicisti in line-up, nel bene e nel male, sono riusciti a costruirsi un personaggio riconoscibile dai fan. Abbiamo, dunque, Floor Jansen, la valchiria dalla voce inscalfibile, Empuu Vuorinen, il folletto biondo alle chitarre, Tuomas Holopainen, il mastermind “con l’immanacabile tuba”, e Marco Hietala, il vichingo dalla barba treccioluta. Circa Kai Hahto alle pelli e Troy Donockley non mi dilungo, sono nuovi innesti ancora in fase di rodaggio.

Il sestetto finlandese non propone più gothic metal, non è più una band di giovani promesse: da un decennio chi dice Nightwish si riferisce a una band matura e ambiziosa, giunta al nono studio album, dopo un lustro dal precedente (e poco riuscito?) Endless Forms Most Beautiful. Human. :II: Nature arriva dopo lo spettacolare dvd Decades Live in Buenos Aires (il commiato definitivo ai Nightwish del passato) ed è il secondo studio album con Floor Jansen al microfono e Kai Hahto viene confermato ufficialmente alla batteria. Se la discografia dei finnici trae nuova linfa per perpetuarsi, tuttavia, il merito è del solito Tuomas Holopainen, in continua esplorazione delle sue radici poetiche e pseudo-panteistiche. Come non bastasse, questa volta l’uscita prevede anche un secondo disco strumentale contenente una suite orchestrale. Più di un fan è rimasto spiazzato da questa scelta di Tuomas, vediamo se l’azzardo ha pagato.

Le danze si aprono con il lungo intro strumentale di “Music”, una sorta di big bang in miniatura che sintetizza la filogenesi umana in minuti dal sapore ancestrale e visionario. I testi sono postmoderni e ricercati, tutto suona ambizioso, come prevedibile del resto, ma le prime parole cantate da Floor Jansen sono di rara delicatezza: «Before you / My home was in the wind and surf / The birds and rain, voices of the northern lights». Metà dell’opener, dunque, è un lungo crescendo, che culmina in una breve parte metal perfettamente in linea con tutti gli elementi distintivi dei finnici. Un pezzo orecchiabile ma sbilanciato nella sua struttura, che fa da trampolino di lancio a “Noise”, prima hit del platter che ha “meritato” un video (decisamente inquietante). Il sound gioca sul sicuro, sembra di sentire 3 o 4 altri brani dei Nightwish e i testi sono caustici e incentrati sull’essenza oscura del rumore di fondo che annebbia le menti degli uomini del nuovo secolo (fuori di metafora, la tecnologia che vampirizza le nostre vite, vittime della società dello spettacolo, così definita già 40 anni fa da Guy Debord): «Noise / To decoy the human voice / Brain insomniac, paranoiac / Endless noise». In sostanza un messaggio trito e ritrito, anche perché il concetto di rumore può essere una vox media (come emerge dalla canzone che ha vinto la palma dell’ultimo festival sanremese, ci sia concesso il paragone). Le parti di doppia cassa del pezzo sono comunque godibili, più in generale tutte le accelerazioni dei Nightwish lo sono, peccato siano pochi secondi strappati a una monotonia dove a far da padrone è un ritornello ripetuto più e più volte.
Dopo “The carpenter”, la discografia dei finnici guadagna un altro pezzo dal titolo conciso ed evocativo: “Shoemaker” è un brano con una buona componente metal e la voce di Troy Donockley nei break più rilassati fa da contrappeso melodico. Floor, dal canto suo, nel finale regala alcune linee vocali che fanno tornare in mente il passato gotico con gli After Forever.
La prima parentesi acustica tout court per rallentare i ritmi si concretizza con “Harvest” (ammettetelo, chi non ha pensato alla ballad degli Opeth leggendo per la prima volta il titolo?) che per metà minutaggio si rivela una song quasi folk dal sapore rigenerante grazie alla voce di Troy, salvo poi trasformarsi in un pezzo energico con la compresenza (sempre esaltante) di cornamusa e chitarre elettriche (ma siamo lontani dai fasti di “I want my tears back”).

I primi 4 brani complessivamente non sono capolavori ma confermano il buono stato di salute della band, la quale non vuole fare passi falsi e propone un’infilata dei propri cliché più rodati.
La situazione non cambia con la seguente “Pan”. Anche un fan dell’ultima ora riconoscerebbe la mano di Tuomas nelle liriche: «Imagine music, dance, illusion / Tales of dust, of man in the moon / The sea lady, snow, glass, apples / It is stories that built cathedrals». Non mancano le ritmiche metal, un coro di voci bianche e i tipici stop and go che hanno reso famosi i Nightwish. Abbondano i power chord e l’impeccabile Floor è d’applausi nell’instant classic “How’s The Heart”. È da brividi ascoltare le note toccate dall’olandese sulla strofa “Fair winds my love / Fly towards the calm / Fly utterly lost / Towards a beating heart” (a tratti viene in mente Constanze Backes, la female baroque voice ospite in “Symphony of Enchanted Lands” dei Rhapsody). In definitive un’ottima vetrina per le capacità prorompenti ed eclettiche della Jansen, che si conferma professionista impareggiabile e finalmente è valorizzata a dovere.
L’ultimo quarto d’ora del primo disco è affidato a tre brani non ugualmente validi. “Procession” è un’altra composizione ambiziosa di Tuomas, i testi potrebbero comparire in un’antologica poetica, mentre Floor non esagera e punta tutto su un’interpretazione controllata. “Tribal” purtroppo è il momento più basso del disco. Bisognava lasciare spazio anche a Hietala e così ci ritroviamo ad ascoltare una versione minore di “Slaying the dreamer”, con tanto di momento tribale pacchiano e inquietante. Molto meglio riascoltare “Arabesque” in Imaginaerum…
Human. :II: Nature si chiude, infine, con i sette minuti di “Endlessness”, brano che anche dopo ripetuti ascolti non convince, vuoi per il main theme dilatato e anodino, vuoi per la presenza poco incisiva di Hietala (ascoltate il solista Pyre Of The Black Heart se volete apprezzare le doti del bassista). Più semplicemente, forse, si tratta di un filler posto a chiusura di un album che ha evidenziato alcuni punti deboli già in precedenza.

Il secondo disco merita un discorso a se stante. Si tratta, infatti, di una suite orchestrale di mezzora che Tuomas ha voluto a tutti i costi abbinare al platter dei Nightwish, anche se appare evidente che si tratta di una sua opera solista in otto parti. Come voce narrante troviamo niente meno che Geraldine James (attrice inglese dal curriculum invidiabile e che ha interpretato la regina Mary nel recente film Downton Abbey), a suo agio nel leggere una citazione tratta da Il pellegrinaggio del giovane Aroldo di Lord Byron (grande poema, che ha ispirato anche Berlioz).
Sulla qualità intrinseca della suite non ci sbilanciamo: Tuomas non è un nuovo Sibelius, semplicemente (?) un buon musicista con una fervida immaginazione e una vena poetica invidiabile. In “All the Works of Nature Which Adorn the World” continua in qualche modo il discorso iniziato con “Song of Myself” e “The greatest show on Earth”, ma lo fa ricorrendo a una palette sonora iper-variegata con tanto di violoncelli, arpa, archi e cori metafisici. Si va da momenti meditativi, ad altri bucolici ed epici in un continuum senza soluzione di continuità che riesce a creare un soundscape suggestivo e di sicuro fascino. Uno dei movimenti prende il nome dall’Inno hurrita di Nikkal, mentre nell’ultimo (intitolato “Ad Astra” come il recente film sci-fi con Brad Pitt) compare una citazione di Carl Sagan, il cui libro Pale Blue Dot è stato omaggiato dai Dream Theater in Distance over time.
In sostanza il secondo disco di Human. :II: Nature è una lieta scoperta, ma Tuomas aveva già regalato ai fan il concept su Uncle Scrooge in separata sede…

Sono passati tre mesi dall’uscita del disco che abbiamo commentato, possiamo tentare di stilarne un bilancio complessivo. Nonostante gli ottimi risultati in termini di vendite emergono alcune incrinature nella corazzata Nightwish. Come già in EFMB, anzitutto si evidenza una certa disomogeneità: avere un sound eclettico può essere un vantaggio, ma anche un danno, se si vuole a ogni costo non tralasciare alcuna possibilità. In termini più concreti, gestire tre cantanti inizia a essere un problema (Floor da sola riuscirebbe tranquillamente a rendere più coeso qualsivoglia brano) così come tenere unita la poetica delle piccole cose alla pomposità degli arrangiamenti sinfonici. Il limite principale della band finnica è infatti far convivere le tante anime che ne compongono il sound magniloquente, ma che deve anche includere momenti più tirati e altri pop. Il nuovo full-length merita quindi un voto discreto (ci sono pezzi buoni come “Harvest”, “Pan”, “How’s the heart”) ma nel complesso il disco non ha grande longevità.
Sulla produzione niente da eccepire, così sull’eterno stato di grazia di Tuomas. Questa formula, tuttavia, prima o poi si incepperà, i fan sono avvisati. I Nightwish potranno rinascere per l’ennesima volta quando riusciranno a vestire un nuovo abito abbandonando parte del precedente. La strada è una e una sola, quella di un sound meno ricco e prevedibile, e magari la trovata di un altro concept di tutto rispetto come fu ai tempi di Imaginareum, disco che meritò una trasposizione cinematografica e fece gioire molti sostenitori della band.

 

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