Recensione: Human Regression
Non sono certo costanza e determinazione a difettare agli Stoned Machine.
Il gruppo, originario del ravennate ed in circolazione sin dal 2003, aveva già dato modo di farsi conoscere su queste pagine tramite un demo omonimo (il secondo realizzato dagli esordi), concepito in origine nel 2006 e raffinato successivamente in una veste più completa e ricca – in termini di minutaggio complessivo – nella versione resa disponibile nel corso del 2008.
Convincente nella rielaborazione degli stilemi cari a quello stoner rock, patrimonio esclusivo di una ristretta cerchia di nomi riconosciuti tra i precursori assoluti, la band romagnola aveva saputo fornire un interessante assaggio di bravura nell’interpretare un genere poco diffuso e dai tratti sfuggenti, codificato e cristallizzato da maestri del settore quali Unida, Fu Manchu, Nebula e “classici” ed immancabili Kyuss.
Un piacere misto ad un minimo di soddisfazione, è dunque il ritrovare il quartetto guidato dal batterista Igor Rosetti e dal singer Luca Damassa, gratificato da un’opportunità discografica vera e propria ed alle prese con un debut album che giunge a premiare, non solo l’evidente talento del gruppo, ma pure la perseveranza dimostrata nel proseguire lungo un percorso musicale non certo tra i più facili e provvisti di sbocchi commerciali come quello del “rock del deserto”.
Scorrendo la tracklist di “Human Regression”, è estremamente agevole identificare un buon numero di brani già noti e realizzati in epoche anteriori. In sostanza, il nucleo principale del demo ascoltato nel 2008. Facile quindi, dati i presupposti, prevedere un risultato che si approssima per qualità e valori ai pregevoli riscontri manifestati in precedenza.
La filosofia che prevede un rifferama torrido, condito da chitarre ribassate e cadenze quasi ipnotiche a significare scenari rarefatti ed avvolgenti, è ancora molto ben presente e tangibile, anima e radice di una proposta suggestiva che esplora toni visionari ed abbaglianti.
Pezzi forti quali “If You Can”, “Shut Up”, “Fire In My Hands” e “Human Regression”, s’imbevono di atmosfere voluminose e potenti che alternano allucinati viaggi nella luce di un sole inesorabile, con la caligine di plumbee giornate di pioggia. Lunghe divagazioni, passaggi strumentali quasi ciclici in cui riverberano le strofe scandite dalla peculiare voce di Damassa, contribuiscono ad intessere uno scenario dal grande fascino polveroso ed onirico, aiutato nella propria espressività da ritmi talvolta ripetitivi e martellanti.
Eccellente in ugual misura, ma dai contorni del tutto dissimili, è invece “Listen To The Wind”, ammaliante ballata crepuscolare che offre suggestioni “sciamaniche” dal profilo ancor più sognante, avvolto in emozioni che sanno di tramonti dipinti su orizzonti profondi e sconfinati
Accanto alla produzione storica si allinea inoltre un blocco, equivalente nel numero, di pezzi inediti, in cui la miscela sin qui progettata non assume particolari variazioni di stile o concetto.
Merita un posto tra le idee meglio riuscite, la coppia iniziale “Intoxication” / “Back To Live In Me”, brani ancora una volta strutturati su movimenti ipnotici dalle chiare derivazioni settantiane e dai tratti – in alcuni frangenti – vagamente psichedelici.
Un vero, grande omaggio ai Kyuss è quindi la solida “Bed Of Sin”, traccia che ribolle di riff massicci ed imponenti per poi immergersi in un suadente intermezzo che rievoca sensazioni desertiche e riflessi lontani, ipoteticamente paragonabili al caratteristico effetto “fata morgana”. Notevole il finale dal taglio parecchio Sabbathiano (“War Pigs”?).
Di umore un po’ diverso per influenze e derivazioni si prospettano infine “Ocean” e “Out Of My Way”. Differenti per tematiche e suggestioni – solare e melodica la prima, accesa da ruvidità assortite la seconda – rappresentano un punto di contatto d’importante rilevanza con alcune interpretazioni del rock alternativo tipico dei primi anni novanta (non proprio grunge, ma nemmeno così lontano), assumendo a tratti, le forme riconoscibili in alcuni episodi partoriti da certi Soundgarden.
Una peregrinazione tra pietraie assolate e distese rocciose, in cui il profumo del deserto, l’avvicinarsi di rarissimi temporali improvvisi e l’odore della polvere rossa, rievocano fotogrammi cinematografici delle immense distese americane prossime alla Death Valley.
Un affascinante intreccio tra suoni ed immagini che era riuscito agli Stoned Machine già con notevoli risultati nell’omonimo demo edito due anni fa, ora reso completo nel percorso e nelle suggestioni in questo ottimo album d’esordio.
Il gruppo ravennate si presenta pertanto, come una brillante realtà tutta tricolore (una delle tante) animata da buone idee e sicure prospettive, pronta ad assumere un ruolo di primo piano all’interno di una scena ancora esigua ma già qualitativamente importante come quella dello stoner rock italiano, per costituire, insieme ai conterranei Herba Mate ed ai veneti The Mexican Whi-Sky, un trio di eccellenze di rilevante consistenza.
Esattamente come scritto in occasione dell’omonimo EP autoprodotto, la conclusione vale anche per questo “Human Regression”: “un disco che saprà rendersi apprezzabile alle orecchie dei non molti appassionati cui, senza alcuna riserva, un ascolto è davvero più che consigliato!”
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Tracklist:
01. Intoxication
02. Back To Live In Me
03. If You Can
04. Bed Of Sin
05. Ocean
06. Shut Up
07. Out Of My Way
08. Fire In My Hands
09. Listen To The Wind
10. Human Regression
Line Up:
Luca “Hernandez” Damassa – Voce
Filippo “Felipe” Petrini – Basso
Mauro “Sampedro” Giorni – Chitarra e Cori
Igor “Rosas“ Rosetti – Batteria