Recensione: Human Stain
Attesissimo come back discografico ad appena un anno di distanza dall’ottimo debutto “Arrival” da parte dei Cornerstone, sorta di super gruppo nato sull’asse anglo/danese e che vede fra le proprie fila l’apporto del carismatico vocalist scozzese Doogie White, già in forza ai Rainbow del controverso “Stranger in us all”, ora alla corte del Dio/chitarrista Malmsteen, nonché di Steen Morgensen già bassista dei fenomenali Royal Hunt dei primi capolavori, qui alle prese anche con i tasti d’avorio, coadiuvati per l’occasione dal drummer Allen Sorensen (ex Royal Hunt) e il chitarrista Kaspar Damgaard (Mike Tramp band).
Dunque, se il primo album aveva lasciato un po’ di amaro in bocca, nonché tanta perplessità, per le sue atmosfere che ricordavano molto da vicino il sound del “cacciatore reale”, il nuovo “Human Stain” risulta essere molto più roccioso e sanguigno costruito su partiture hard rock che sempre più di sovente si ricoprono di tinte rosso porpora seventies style, grazie soprattutto ad un uso sapiente dell’hammond che rende il suono molto ma molto più affascinante, anche se, è bene ribadirlo, è la chitarra del buon Kaspar a fare la parte del leone ritagliandosi sempre più parti di assoluto rilievo fra assoli dinamici di scuola Black-moriana, e parti più soffuse di scuola Jhon Sykes.
Un disco godibile, intenso, emozionante letteralmente fruibile e che evita in ogni modo la ripetitività, rispondendo colpo su colpo alle critiche ricevute all’epoca del debutto, piazzando una manciata di tracce ad alta gradazione hardeggiante come la stupenda opener track “Unchosen one” splendido esempio di class metal vetereo dalle reminiscenze Dokken-iane, o l’intrigante “Wounded land” che sin dal riff iniziale riporta in mente lo spettro di capolavori come “Paradox” e “Moving target”.
Le cose cambiano nettamente con il possibile hit “Some people fly” che sembra addirittura uscire da classici storici come “Burn” o Stormbringer” con il bravo e duttile Doogie White sempre più sulle orme del maestro Coverdale, così come dimostra l’irruente “Midnight Tokyo”, mentre di tutt’altra pasta sembra essere la ballata “spacca mutande” “Resurrection symphaty” dominata da una slide guitar e da voci filtrate simil-Bonjovi ultima maniera.
Che dire di più, un disco consigliato a tutti i veri amanti del buon hard rock, da acquistare senza pensarci due volte.
Beppe “HM” Diana