Recensione: Humanoid
Avvicinarsi agli Accept con l’obiettivo di scrivere una recensione significa confrontarsi con una vera e propria istituzione del Metallo Pesante, studiarne la storia, ripercorrerne la discografia…e rendersi conto che si sta per ascoltare il diciassettesimo album della band. I Lettori più scaramantici, quelli che fanno il gesto delle corna sia quando vanno ai concerti che quando passano sotto ad una scala, avranno probabilmente già drizzato le antenne. L’avverso posizionamento numerologico permetterà ai Nostri Eroi di portare a casa il risultato? Per rispondere a questa domanda, come è giusto che sia per un gruppo di così grande importanza, è doveroso fare il punto della situazione. Il penultimo “Too Mean to Die”, pur non classificandosi tra i migliori dischi degli Accept, si lasciava ascoltare piuttosto volentieri. Recensirlo mi ha permesso di fare tutte le operazioni propedeutiche a cui accennavo poche righe fa: le considerazioni che ho scritto in quell’occasione sono valide tuttora (qui la recensione, per chi volesse approfondire). Non ripeterò pertanto informazioni già fornite in passato, anche perché ribadire nozioni di pubblico dominio ormai da quarant’anni sarebbe ridondante. Cercherò tuttavia di riassumere alcuni aspetti imprescindibili.
1)Tutti gli appassionati sanno chi sia e cosa abbia fatto per gli Accept il cantante Udo Dirkschneider. Quei pochi che non hanno mai letto o sentito questo nome, per piacere, provvedano il più in fretta possibile a colmare la lacuna. Già che ci siete, cari Lettori, approfondite anche la conoscenza dei suoi U.D.O.: non ve ne pentirete.
2)Il poker d’assi discografico costituito dagli album degli Accept “Breaker” (1981), “Restless and Wild” (1982), “Balls to the Wall” (1983) e “Metal Heart” (1985) dovrebbe far parte di ogni libreria musicale metallara, fisica o digitale che sia, insieme ai grandi classici di Judas Priest, Saxon, Iron Maiden eccetera.
3)La fuoriuscita di Dirkschneider dal gruppo, avvenuta nella seconda metà degli anni ’90, non ha segnato la fine degli Accept.
Mi preme sottolineare soprattutto quest’ultimo punto. Il 2010 ha infatti sancito il ritorno in pompa magna della band con l’ottimo “Blood of the Nations”, seguito a ruota negli anni successivi dai solidissimi “Stalingrad: Brothers in Death” e “Blind Rage”. Il nuovo corso del gruppo è iniziato col piede giusto anche grazie all’ugola di Mark Tornillo, già cantante dei TT Quick e ‘assunto’ tra le fila degli Accept a partire proprio da “Blood of the Nations”: la voce graffiante del cantante statunitense senza dubbio regge bene il confronto con quella del suo illustre predecessore. Il resto del gruppo, ça va sans dire, ha continuato a sfornare materiale musicale di gran classe, riportando in auge il monicker Accept in questo turbolento nuovo millennio. I cambi di formazione che hanno interessato gli Accept a partire dal 2017, anno di pubblicazione di “The Rise of Chaos”, hanno inciso sulla produzione artistica della band smussandone leggermente il forte impatto sonoro, rimasto pressoché invariato sino a “Blind Rage”. Attenzione: dopo il 2017 gli Accept non si sono trasformati in una sorta di boy band, ci mancherebbe altro! Indubbiamente, però, a partire da quell’anno il metronomo seguito dagli Accept sembra aver sperimentato un graduale rallentamento, lasciando sempre più spazio a suggestioni melodiche Hard Rock che, anche se in misura minore, hanno sempre fatto parte dello stile del gruppo. “Humanoid”, ultima fatica degli Accept, conferma questa tendenza con le sue 11 tracce nuove di zecca.
L’album, distribuito sotto l’egida della Napalm Records, colpisce subito l’immaginazione dei fan di vecchia data: la copertina, chiaramente ispirata dallo storico film Metropolis di Fritz Lang, presenta due non trascurabili dettagli che rimandano a un vecchio disco del gruppo. Il robot protagonista dell’illustrazione infatti ha nel centro del petto un cuore simile…al dispositivo pettorale di Iron Man? Sì, ma non solo: il cuore del robot ha la stessa stessa forma del cuore di metallo ritratto nella copertina del succitato “Metal Heart”! Persino la finestra alle spalle dei personaggi, utile per mostrarci la città futuristica in cui è ambientata la scena, ha la medesima forma. Questo sta a dimostrare quanto gli Accept e Wolf Hoffmann abbiano a cuore il passato: basta andare a vedere la band in concerto e fare attenzione alla scaletta per rendersi conto di come ogni volta venga celebrata tutta la storia del gruppo, senza sbilanciarsi troppo né verso i brani dell’era-Tornillo né verso quelli dell’era-Dirkschneider. Certo è che ormai l’era-Tornillo si sta allungando sempre di più: il ‘nuovo’ cantante ormai è giunto al sesto album in compagnia degli Accept…o forse dovrei dire in compagnia di Wolf Hoffmann: il chitarrista tedesco è l’ultimo membro fondatore rimasto saldamente alle redini della band. Dopo la pubblicazione di “The Rise of Chaos”, infatti, abbiamo assistito alla fuoriuscita del bassista Peter Baltes, altro membro fondatore del gruppo confluito nella formazione degli U.D.O.. La situazione si sta ingarbugliando? Bene, aggiungiamo un altro pezzetto alla girandola dei cambi di formazione: il penultimo disco degli Accept, “Too Mean to Die”, ha visto la partecipazione di ben sei musicisti. Avrete però notato, nella foto di gruppo inserita qualche riga fa, la presenza di cinque persone. Il buon Philip Shouse, terza ascia degli Accept, al momento non sembra essere parte integrante della band. Perché ‘sembra’? Nei videoclip di “The Reckoning” e “Humanoid”, i primi due singoli estratti dall’ultimo album, Philip Shouse appare regolarmente al suo posto. Facendo un po’ di ricerche sul web mi sono però imbattuto in una serie di articoli che facevano riferimento ad alcuni problemi di salute incontrati dal chitarrista, a quanto pare sufficientemente importanti da impedirgli di proseguire il tour con la band. Le date del 2024 verranno portate a termine dagli Accept con la collaborazione di Joel Hoekstra, attualmente attivo nei Whitesnake e nella Trans-Siberian Orchestra. Detto ciò, sperando che tutto proceda per il meglio per Shouse, torniamo a bomba: fortunatamente rimangono fissi nelle loro postazioni gli altri cinque ‘brutti ceffi’ elencati nella line-up di “Too Mean to Die”. Andiamo a vedere cos’hanno combinato!
La prima canzone del lotto, “Diving into Sin”, è racchiusa tra due evocativi passaggi dall’atmosfera orientaleggiante che sembrano riprendere il discorso iniziato con “Samson and Delilah”, brano strumentale posto in conclusione a “Too Mean to Die”. La canzone è una rocciosa galoppata il cui testo incita a tuffarsi nel peccato per sfuggire alla progressiva irreggimentazione della società contemporanea, flagellata da insensate recrudescenze di guerre fredde e da una sempre più preoccupante alienazione tecnologica. Proprio quest’ultimo tema è l’argomento centrale di tutto il disco, intitolato “Humanoid” come la title track, una canzone scritta dal punto di vista di un essere metà uomo e metà macchina. Leggiamo nel testo del brano le parole di una sorta di Terminator in nuce che candidamente dichiara di essere malvagio, invincibile e pronto a comandare sull’umanità, colpevolmente schiava di una tecnologia sempre più pervasiva. Il robot cattivo di “Humanoid” sembra proprio il frutto del malato rapporto con la tecnologia illustrato nel testo di “Zombie Apocalypse”, prima traccia di “Too Mean to Die”. E’ come se una bandiera bianca 2.0 venisse sventolata sempre più volentieri dagli esseri umani, incredibilmente pronti ad affidare alle nuove tecnologie gran parte delle attività che li rendono, per l’appunto…umani. La posizione degli Accept nel dibattito riguardante le nuove tecnologie è chiara. Già in “The Rise of Chaos” veniva affrontato il tema: ricordo Tornillo cantare con orgoglio la sua appartenenza alla schiera di ‘uomini analogici’ in “Analog Man”, inno dedicato a tutti i vecchi dinosauri che campano di HI-FI…e non di wi-fi. Si inserisce in questo flusso di riflessioni la terza canzone del disco, “Frankenstein”: il celeberrimo ‘mostro’, uomo artificialmente creato da altri uomini, è forse il primo esempio fantascientifico di essere vivente nato a causa di uno sconsiderato uso della Scienza. Ciò detto, risulta quantomeno contraddittorio costruire il lyric video del brano utilizzando l’intelligenza artificiale…ma così è, se vi pare: il videoclip, per amor di completezza, è cliccabile in calce alla recensione. Segue “Man Up”, una delle maggiori incursioni in territorio Hard Rock presenti nel disco: la canzone è ricca di momenti corali fatti apposta per essere dati in pasto al pubblico nei futuri tour degli Accept. Il testo spiega con molte metafore pokeristiche e senza mezzi termini come la vita non sia tutta rose e fiori, per cui…forza, Uomo: fatti coraggio e vai avanti!
“The Reckoning”, uno dei due primi singoli scelti per anticipare la pubblicazione di “Humanoid”, rappresenta alla perfezione l’attuale stile degli Accept. Anche questa traccia è animata da passaggi che scateneranno lunghe fasi di call and response tra pubblico e band in sede live: ritmi vivaci e allegri, riff di chitarra che sembrano stati scritti a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, struttura molto canonica. Le fasi recenti della carriera degli Accept, effettivamente, sono sempre più caratterizzate dalla produzione di brani dalla struttura semplice e arricchiti da melodie accattivanti. La facilità di appropriazione delle melodie da parte del pubblico fa sì che partecipare ad un concerto degli Accept sia un’esperienza trascinante e divertente, però, francamente, quest’ultima fatica degli Accept si muove anche un po’ troppo in questa direzione, tralasciando talvolta quella giusta furia che ha fatto di “Blood of the Nations” e dei successivi dischi le grandi opere che sono e per sempre saranno. La successiva “Nobody Gets Out Alive” segue quest’orientamento: la canzone è stata impreziosita da melodie acchiappesche (come avrebbe detto il grande Gigi Proietti), ritmi danzerecci e cori da cantare a squarciagola brindando con molti boccali di birra (rigorosamente da un litro). Piazzare a questo punto del disco il lento “Ravages of Time”, subito prima dell’energica e coinvolgente “Unbreakable”, permette all’ascoltatore di prendere un po’ di fiato…anche troppo, a dirla tutta. Purtroppo la canzone non brilla particolarmente, col rischio che qualche ascoltatore senta sempre più pressante il bisogno di premere il tasto skip forward. Non sono mai andato troppo d’accordo con la decisone di sistemare a tutti i costi una ballad nei dischi, soprattutto quando il brano in questione risulta poco stimolante. Va bene stemperare un po’ la tensione, però il confronto con altre canzoni analoghe comparse qua è là nella storia del Metal è davvero impietoso: basti pensare, tanto per fare due tra i mille possibili esempi, alle famosissime “Still Loving You” degli Scorpions e “Old L.A. Tonight” di Ozzy Osbourne, intensissime ballad poste rispettivamente in chiusura dei mitici album “Love at First Sting” e “Ozzmosis”. Per fortuna la successiva “Unbreakable” riesce in qualche modo di risollevare la situazione; peccato che questa canzone introduca un brano caratterizzato da quell’agrodolce sapore che sprigionano i cosiddetti filler: tracce carine, ci mancherebbe, ma pur sempre riempitive. “Mind Games” è infatti una convenzionale cavalcata Heavy che, sia dal punto di vista musicale che da quello del testo, sembra essere arrivata un po’ fuori tempo massimo. Il penultimo brano, “Straight Up Jack”, è la divertente narrazione targata Accept di…un’ordinazione al bancone del bar: ai Nostri il whisky piace liscio, sappiatevi regolare!
Chiude la partita “Southside of Hell”, brano che finalmente torna a far scorrere un po’ di sano Metallo nelle orecchie degli ascoltatori: la canzone dimostra come gli Accept sappiano ancora fare il loro siderurgico mestiere. Perché, allora, correre a tratti col freno a mano tirato? “Humanoid”, intendiamoci, è un lavoro ben prodotto, spassoso e piacevole da ascoltare: i ‘dischi brutti’ che tanto temiamo sono molto diversi da questo. Già ascoltando il penultimo “Too Mean to Die”, però, avevo immaginato gli Accept impegnati ad usare con particolare insistenza il temperamatite durante la stesura delle partiture…l’Heavy Metal classico e i suoi innumerevoli sottogeneri dovrebbero invece essere intrisi di eccessi sonori, rabbia e ribellione. Ascoltare Metal deve essere soprattutto un’esperienza catartica: l’incazzatura che il ‘metallaro medio’ accumula a causa delle brutture del mondo, dei guai lavorativi e delle beghe familiari dovrebbe venire scacciata dall’accensione dello stereo. “Humanoid”, nonostante le eccezioni di “Diving into Sin”, “Unbreakable”, “Humanoid” e “Southside of Hell”, non aiuta molto in questo senso ed è inevitabile pensare come questo disco sia stato scritto più o meno dalle stesse persone che con “Blind Rage” erano perfettamente riuscite in questo intento. In buona sostanza ci si aspetterebbe dagli Accept un abbandono della ‘zona di comfort’ a cui sembrano essere approdati, prima che le loro pietanze incomincino ad essere vagamente insipide. Non siamo ancora arrivati a questo punto, figuriamoci, però l’esperienza insegna a non sottovalutare certe avvisaglie. In attesa che gli Accept tornino a deliziare le nostre orecchie con la loro tradizionale potenza musicale, diamo comunque una chance a “Humanoid” e, soprattutto, valutiamo la possibilità di partecipare al prossimo spettacolo che gli Accept organizzeranno sul suolo italiano: dal vivo i ragazzi ci danno dentro come se non ci fosse un domani. Stando alle date programmate e visibili in rete pare che nel 2024 lo Stivale non li ospiterà: vorrà dire che li aspetteremo fiduciosi nel 2025. Il Lettore curioso arrivato sino a qui può cliccare su questo collegamento: potrà leggere un’esclusiva analisi track by track di “Humanoid” scritta nientemeno che da Mark Tornillo e Wolf Hoffmann in persona. Buon ascolto a tutti!
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