Recensione: Humans Need War
A due anni di distanza dal precedente “Dead Sound Walking”, tornano a calcare le scene i fratelli Gscheidel e la loro creatura Krieg con il secondo tassello discografico: “Humans Need War”.
Evidentemente soddisfatti dei suoni del precedente lavoro, i quattro lombardi si sono nuovamente affidati alle mani di Glenn Fricker, negli studi Spectre in Ontario, per missaggio e masterizzazione dell’album, forse per dare un segnale di continuità con il passato e definire anche attraverso la cura di certi dettagli la personalità del gruppo. Scelta che, possiamo dirlo, ha senz’altro pagato in termini di resa, conferendo alle composizioni suoni secchi ma potenti, che si sposano alla perfezione con il tipo di proposta.
Anche dal punto di vista musicale “Humans Need War” è la naturale prosecuzione del precedente lavoro, con il quale si possono riscontrare diversi elementi di continuità. Per inquadrare il genere di proposta, infatti, si potrebbero riprendere in toto le considerazioni fatte per “Dead Sound Walking” e di conseguenza stessa attitudine, intensità e consapevolezza nei propri mezzi. Lo stesso dicasi per le influenze, qui, tuttavia, meno evidenti che in passato. Le dieci tracce sono sempre molto cupe e poco inclini alla ricerca di melodie solari o facilmente assimilabili, anche se tra i solchi dell’album sembrano aver preso maggiore consistenza armonie assimilabili a certo death melodico, specie nei fraseggi di chitarra. Così come si è ridotta all’essenziale la componente nu metal, sebbene qualche eco à la Slipknot sia ancora riscontrabile. Unico brano a fare storia a sé, rendendo tutte queste considerazioni di conseguenza non sempre valide, è “Until I’m Inside”. Episodio che strizza l’occhio al metal moderno made in USA, caratterizzato dalla sistematica contrapposizione tra strofa dura e ritornello orecchiabile – spesso stucchevole – ed è tra l’altro anche il meno appetibile del lotto. Discorso simile pure per “1000 Hands”, anche se complessivamente quest’ultima risulta decisamente più azzeccata ed in parte più imprevedibile.
Sebbene l’album risulti molto compatto dalla prima all’ultima traccia, si può sostanzialmente dividere in due tronconi. Una prima parte (fino a “Scars”, compresa) più diretta e facilmente memorizzabile. Prendiamo ad esempio l’opener “Don’t Scratch The Wall” caratterizzata da un groove sì glaciale, ma al contempo accattivante e da un bel solo di chitarra (ne troverete diversi e davvero ben congeniati lungo tutto l’album) che parte in maniera suadente e poi cresce d’intensità. Ed una seconda più ostica e contorta, più incline alle dissonanze. Basta ascoltare il trittico di canzoni poste in chiusura per rendersene conto. Tra queste spicca “Burned Fields”, ma ciascuna meriterebbe menzione.
In sintesi, bentornati ai Krieg ed alla loro voglia di rimettersi in gioco senza dare niente per scontato, curando da un lato la crescita tecnica e stilistica, dall’altro quella compositiva. Il risultato è un lavoro nel complesso di non facile presa (e probabilmente non adatto a tutti i palati) tutto da scoprire, che crescerà con gli ascolti.
Orso “Orso80” Comellini
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