Recensione: Hybreed (2 CD Reissue)

Di Giuseppe Casafina - 12 Febbraio 2017 - 0:23
Hybreed (2 CD Reissue)
Band: Red Harvest
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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90

Ogni band, a prescindere dal genere di appartenenza, ha il suo destino.

In ambito strettamente musicale il destino è quell’insieme di fattori che, legati alle scelte intraprese, decretano il relativo successo o insuccesso della band stessa: purtroppo non sempre il succitato destino si rivela particolarmente fruttifero nei confronti di molti musicisti, specie se questi risultano animati da uno spirito particolamente innovatore e fuori dagli schemi.

Il caso dei Red Harvest è, da sempre, il classico caso della band di nicchia, del successo a metà: amatissimi da un circolo ristretto ma fedelissimo di fieri supporters ma completamente ignoti a molti, forse troppi.

Di certo la ricetta stessa dell’ensemble norvegese non aiuta di certo a facilitarne la digestione: da sempre i Red Harvest sono autori di un suono personalissimo, meccanico ed alienato, un marchio di fabbrica che è costato purtroppo alla band questo status di ‘dannati’. La loro miscela assolutamente unica di death, black, doom e sonorità industriali è sempre stata reinterpretata in modo fortemente atipico, schizoide, risultato un qualcosa posto fuori da ogni schema conosciuto. Ma andiamo un attimo indietro nel tempo, per entrare in quello che, in sordina, si sarebbe rivelato uno dei più anomali parti musicali mai concepiti dalla mente di un manipolo di musicisti di estrazione metal.

Anno 1996: i Red Harvest venivano da un disco (il secondo della loro carriera) quale “There’s Beauty In The Purity Of Sadness” che, per quanto meravigliosamente unico (per i dettagli basta consultare la bio celebrativa della band scritta dal sottoscritto per la nostra rubrica TrueMetalStories), alla fine non era quel che serviva davvero all’ensemble per maturare la maturità definitiva. Vi era ancora qualcosa da smussare, i brani erano ancora ancorati ad un background di estrazione fortemente Alternative, con numerosi e continui richiami ai Ministry, anche se già compariva la vena meccanica ed allucinata che sarebbe poi divenuta, a partire da questo “Hybreed”, il marchio di fabbrica dell’act norvegese.

Appena uscito, il disco non fu certo il successo che molti si aspettavano: relegati ad uno status di culto, i Red Harvest comunque non si persero d’animo continuando, ad ogni capitolo, a perfezionare un sound figlio dell’esasperazione sociale, della solitudine, ma con un occhio sadicamente improntato verso una visione del futuro pessimistica e figlia della più atroce distopia.

Insomma, non certo un boccone facile.

Già a partire dal’iniziale ‘Maztürnation’ infatti, l’assalto dell’act nordico si rivela qualcosa di del tutto inusuale, con un brano dove un riff meccanico, ripetuto fino all’ossessione, si lega ad una voce pesantemente effettata fino al punto da sembrare al di fuori del mondo: come un grido ossessionato di disperazione che, guardando verso il futuro, cerca di poter migliorare il proprio presente.

Oscure sono le ombre anguste, rigorosamente in chiave musicale, che aleggiano su questo platter, magnifica ed ignota pietra miliare di una formazione sino ad oggi forse troppo snobbata: a tardo 2015, ecco piombare un messaggio della band che afferma di essere finalmente ed immediatamente ritornata in pista, dopo il brusco stop del 2010 (piombato senza alcun preavviso, tipico destino della band maledetta). Poi, la rinascita prende piede prima con una (devastante, a detta dei presenti) performance al Blastfest nella natia Norvegia, poi con la ristampa rinnovata di questo capitolo che,  a conti fatti, rappresenta il vero punto fermo del loro firmamento musicale.

“Hybreed” si ripresenta a noi comuni mortali con un artwork completamente rinnovato, finalmente in grado di rendere giustizia alle torbide visioni futuristiche del combo, ed un formato in doppio CD (vi sarebbe anche una riedizione in tape, uscita lo scorso anno, senza però alcun materiale bonus presente al proprio interno) contenente anche otto brani estratti dalla già citata esibizione al Blastfest: in pratica, una celebrazione in grande stile di una rinascita che forse migliore di così non sarebbe mai potuta essere.

Oggi l’attacco massiccio e liberatorio di ‘Maztürnation’ è ancora presente, così come vi è tutta la carica desolante e cyberpunk di un disco talmente ai confini dei generi conosciuti che è tutt’oggi in grado di spiazzare anche il più dotto e svezzato tra gli amanti delle sonorità estreme. Un attacco di fitte alla schiena e momenti da pelle d’oca da comprendere appieno e rivivere all’unisono con la band: un disperdersi magnetico suddiviso in due parti dal mood differente ma di per loro complementari, quella più diretta ed esplosiva che va dalla già citata ‘Maztürnation’ fino alla sospensione ansiogena di “After All…” e quella più riflessiva, angosciosa e dilaniante in cui, partendo dal poco consolante doom cibernetico di ‘On Sacred Ground’ (quasi una versione sotto acido dei Candlemass più disperati) ci porta fino alla follia terminale (dal clima meravigliosamente straziante) della conclusiva ‘The Burning Wheel’.

Nell’intermezzo delle rispettive parti del platter, compaiono perle schizofreniche di assoluta genialità quali la fiera anomalia di ‘Mutant’ (un pezzo scevro di qualsiasi limite, ricolmo fino all’orlo sonorità di stampo industriali ora contaminate col punk più nichilista, ora col death metal, per un risultato che di sicuro lascerebbero spiazzato qualunque purista), il massiccio discendere verso gli inferi del disagio di ‘The Harder They Fall’, mentre con ‘Underwater’ vi sembrerà per davvero di sprofondare all’interno di chissà quali acque tempestose dell’esistenza…giusto il tempo per pemettere alla successiva ‘Monumental’ (come dei Fear Factory dispersi in qualche gelido deserto di Nettuno) di gettare ulteriori angosce nella nostra mente. I corposi giri di synth, da sempre vera spina del fianco dell’estremista più oltranzista, sono qui essenza stessa e fiera rappresentazione dello spettro musicale incontrastato e genocida dei Red Harvest, uno spettro sonoro che persino nelle due, quasi interminabili suite elettro-acustiche di ‘Ozerham’ e ‘In Deep’, riesce ad infondere malessere e gioia all’unisono.

Insomma, una carica che tuttora, ad oltre venti anni di distanza dalla sua release originaria, suona intatta, fresca, atipica: i Red Harvest son sempre stati, ad onor del vero, un ensemble in grado di cambiar pelle ad ogni loro capitolo discografico seppur mantenendo un solido impianto di base (in grado di distinguerli dai ‘millemila’ cloni di altri cloni presenti là fuori), però tra questi solchi il magma sonoro plasmato dai norvegesi appare ai nostri padiglioni come un coro, disperato, di astronauti miracolosamente vivi ma definitivamente dispersi tra le lande di un qualche pianeta a noi ignoto, forse addirittura al di fuori della nostra stessa galassia.

Ed infatti, è proprio quella bizzarra commistione tra la gioia della sopravvivenza e l’angoscia della solitudine il vero motore primo in grado di dare forza pulsante, possente, ad una perla di contaminazione sonora il cui unico senso di esistenza, quasi paradossale, è la propria purezza. Potenza dei già citati ‘musicisti maledetti’ probabilmente.

La razza ibrida, questo il gioco di parole che si nasconde dietro un nome altisonante quale “Hybreed”: un disco che avrebbe potuto cambiare molte cose, ma a cui purtroppo il destino citato in apertura è stato avverso. Ma ciò non conta, perchè oggi è possibile recuperare con questa ristampa che sublima il contenuto originario e lo eleva, finalmente, verso le vette del più importante firmamento musicale.

Non abbiate paura dell’ignoto, vi stupirà.

Oggi, come allora.

 

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