Recensione: Hybris
Così, dopo diciannove anni di attività, i tedeschi Deadlock tagliano il traguardo del settimo album, “Hybris”.
Una considerazione apparentemente scontata, questa, poiché i Nostri sono nati nel momento peggiore per il metal, cioè poco dopo l’esplosione, culmine e (apparente) decadenza del death metal melodico, travolto, non solo lui, dai ben noti fenomeni inquinanti del nu-metal.
Perché, appunto, lo stile di Sebastian Reichl e compagni, alla base, è parecchio fedele al gothenburg metal. Tipologia che, si pensava, avesse detto tutto con gli In Flames. Invece, è andata diversamente: il death metal melodico non è morto e, anzi, trova nel modern metal o melodeath, che dir si voglia, la sua naturale evoluzione post-terzo millennio.
Ma i Deadlock seguono fedelmente la direzione primigenia e, seppure rimpolpati, in formazione, dalla cantante Margi Gerlitz (subentrata alla defezionaria Sabine Scherer), propongono, sempre e comunque, un metal estremo assai classico. Unendo, con una discreta classe, brani da classifica (‘Epitaph’) ad assalti all’arma bianca (‘Carbonman’, ‘Berserk’), contraddistinti, questi, dal caratteristico, unico e inimitabile drumming up-tempo scoppiettante à la In Flames, giusto per tornare su sentieri conosciuti. Assalti a volte – ma non sempre – davvero duri, massicci, aggressivi, capitanati dal growling violento e cattivo di John Gahlert (bravo anche nelle parti pulite); inframmezzati, come si poteva facilmente supporre, dalle acute ma melodiche linee vocali della Scherer.
L’insieme di song che deriva da quest’approccio compositivo non è completamente riuscito, almeno a parere di chi scrive. Le melodie, difatti, non sono spinte nella necessaria profondità per sfondare l’audience. Purtroppo per i Deadlock, i refrain paiono essere quasi uguali gli uni agli altri, e ciò avviene più si ascolta il disco. Il che non è un buon segno, giacché maggiormente si va avanti, maggiormente si sente puzza di tedio.
Pure le canzoni più arcigne, di contro, non sono abbastanza impattanti. Il ritmo più o meno è sempre quello, ma non c’è mai l’impennata, il colpo di genio, quel quid in più che sollevi definitivamente le sorti di un’opera sufficiente, sì, ma poco più.
I Deadlock sono indubbiamente dei navigati mestieranti e, anche nei momenti artisticamente meno riusciti, sopperiscono con l’esperienza e, appunto, con il mestiere. Anche la stessa Gerlitz, benché tecnicamente adeguata, non riesce a segnare in modo indelebile “Hybris”.
Il quale, per chiuderla qui, trova la sua via nel non-impegno. Da ascoltare in sottofondo, oppure in auto, in un pub, ma nulla di più.
Daniele D’Adamo