Recensione: Hydra (Reissue)
La seconda prova è sempre la più difficile. Quante band potrebbero testimoniarlo, e non fanno eccezione i Toto, quando nel lontano 1979, ebbero l’onere di rinnovare i fasti del promettente debutto. A prescindere dalle vendite (inferiori a quelle dell’esordio), il miracolo venne compiuto e avrebbe presagito grandi cose a venire: “Hydra” dimostrò il carisma e il talento di una band sempre capace di rinnovare se stessa. La copertina sembra suggerirci in toni onirici la volontà del combo di avventurarsi verso terre inesplorate ed affrontare nuove sfide estraendo ancora una volta la spada, per tagliare i fili dei cliché.
E così, i nostri cavalieri incominciarono a vagare alla ricerca delle loro chimere, della loro idra…
“…There was a man
Who walked alone
Searching for the girl who had just caught his eye…”
Un intro spettrale spiazza gli abituè e dalle tenebre di un fondale nebbioso i tasti salgono regali e carichi di visioni epiche. Il testo è sibillino e criptico. Steve si immette con rochi e scattanti riff, in perfetta simbiosi con il grido disperato dell’ensemble. E’ un brano che riassume la voglia di sperimentare e di commistione dei Toto, pura forza immaginifica, libera da schemi e pastoie del periodo, avventurandosi nei meandri del prog rock. Quel che risulta è un incrocio che ha le zanne del drago, le ali ariose del prog, il brio caldo e tribale del blues/jazz. Insomma, una vera propria idra dalle molteplici teste, vorace di influenze.
“St. George And The Dragon” si tinge di shuffle, tasti fieri e chitarre altere. Il refrain è cruciale: semplice e raffinato, partorisce melodie sinuose ed ammalianti. Questo drago ha il suo cuore negli assoli splendenti e romantici di Lukather, definendo tonalità che faranno scuola, riprese dove mai ve lo sareste aspettato.
La malinconia del piano ci conduce al cospetto del mondo privo di affetti di “99”, ispirato al film THX 1138 di George Lucas. Il refrain vibra intenso e fragile al contempo, spezzandosi quasi fosse fatto dei nostri effimeri sentimenti. Colorato, il gioco dei synts è un soffio di melodia che impreziosisce le liriche dei Toto. La chitarra di Steve mostra le solite grandi doti di interpretazione sfiorando con delicatezza la linea melodica, fondendosi con i rintocchi solitari del piano. Di “99” venne girato un video dove il bianco dominava la scenografia, simbolo dell’omologazione sociale e della spersonalizzazione, dove qualunque sentimento è stato bandito perché espressione dell’individuo e della propria umanità.
Sempre un grande intro ci attende in “Lorraine”, con Paich che sussurra parole d’affetto all’amata. Ad un tratto entra una fanfara, l’allegra compagnia degli amici di David, riuniti a festeggiare il matrimonio del proprio amico. Non a caso, il ritornello è divertimento e gioia incontenibile… insomma, quando i Toto gridano “It’s such a funny day” vogliono proprio farci sentire tutto il loro contagioso calore!
La prossima fermata è tra amici selvaggi e veloci, la brigata di “All Us Boys”. Qui non siamo davanti a sgorbi dance anni Settanta o ad un soporifero lentone ma all’essenza dell’assalto rock, potente, pulsante, libero e vitale. E’ il pezzo dove i Toto danno finalmente il giusto tributo alla chitarra hard’n’roll, affilando vibrati e sprigionando energia travolgente nelle veloci incursioni. Probabilmente con “Hold The Line” e “White Sister”, la miglior scheggia di puro rock liberato dal combo della spada.
Con “Mama” si ritorna ad abbassare il voltaggio e i tasti sembrano muoversi agili ma prudenti mentre la voce vola alta, intrisa di blues e musica nera, così come il coro, sempre a suo agio con armonie ariose e aggraziate. Il connubio di piano e guitarplay dipinge sempre un affresco ricco di spunti, lussureggiante come la vegetazione tropicale. Un ecosistema dove la jam session e l’improvvisazione nonché l’interpretazione fanno da signori e padroni.
Altra track ed una nuova scarica di adrenalina si abbatte con “White Sister”. Se Lukather è il riffmaker e le tastiere sono le sue ancelle, la voce di Bobby è, invece, la regina satura di hard blues che inonda e fa esplodere le strofe. Gli assoli ti avvinghiano e ti trascinano in un vortice, scorrendo veloci nella notte come un fascio di luce. E con queste credenziali la “Sorella Bianca” a buon diritto entra nel novero dei brani simbolo della band, sempre abile a vestire abiti diversi senza mai snaturare e tradire la propria identità.
Synts vellutati annunciano l’epilogo nelle vesti di “A Secret Love” e i tasti ritornano protagonisti indiscussi. La voce tesse un’atmosfera intima e fragile eppure così intensa quasi stessimo vivendo un sogno fatto di visioni, speranze e amori segreti.
E’ strano ma “Hydra” non ricevette la stessa accoglienza del predecessore: paradossale se consideriamo che la qualità media delle canzoni era superiore all’esordio. Dopotutto, si sa, il pubblico è volubile e le mode sono passeggere. Ciò che veramente importa è che il tempo non ha mai scalfito il fascino di queste gemme. Un pezzo di storia del rock melodico ma più semplicemente un disco di musica immortale, da amare incondizionatamente.
Eric Nicodemo