Recensione: Hymns for the Lesser Gods

Di Daniele D'Adamo - 1 Marzo 2024 - 0:00

Ancora una one-man band di death metal. Un fenomeno che, infatti, soprattutto nel Nord America, sta prendendo piede alla maniera del black, genere per antonomasia di questo tipo di progetti.

Nel caso in inspecie trattasi del multistrumentista, e voce, Brendan Dean che, con “Hymns for the Lesser Gods”, segna il traguardo del primo full-length in carriera sotto il moniker Fathomless Ritual. Dean che, malgrado abbia attivato solo nel 2023 la sua creatura, possiede un background, ovviamente underground, di tutti rispetto; prendendo parte a numerosi act fra i quali spiccano i Fumes.

Il death del disco è, bisogna evidenziarlo subito, davvero minimale, soprattutto per quanto riguarda il songwriting. L’uniformità dei vari brani è praticamente totale, ed è davvero arduo, se non impossible, distinguerli l’uno dall’altro. Un difetto che, si comprende da sé, che è piuttosto grave giacché lima il piacere dell’ascolto e la longevità del lavoro. Insoma, fra ‘Hecatomb for An Unending Madness’ ed ‘Exiled to the Lower Catacombs’, per dire delle prime due, non c’è molta differenza, anzi. Questo trend non cambia con il trascorrere delle tracce per cui, alla fine, l’LP non regala nulla, in materia e sostanza dei singoli episodi.

Il problema che assilla “Hymns for the Lesser Gods” è individuabile principalmente nel riffing, sostanzialmete immutato a mano a mano che si procede nell’ascolto. Che, però, presenta un segno caratteristico impensabile a priori, date le premesse. L’elaborazone degli accordi è tale, cioè, da conglobare nello stesso istante sia il riff vero e proprio nonché un… cappello di frequenza più alta che strizza l’occhiolino al rock’n’roll (sic!). Una costruzione del genere è praticamente unica nel suo genere per cui ecco l’ossimoro: gli accordi delle canzoni paiono essere sempre gli stessi ma gli stessi non trovano riscontro nel panorama del metal estremo.

Il che significa che, paradossalmente, i Fathomless Ritual sono riusciti a creare uno stile tutto loro, facilmente distinguibile da quello delle altre formazioni, per un’originalità non indifferente al contrario assai interessante. Stile ricco di mood, tetro, allucinato, stordente, che rimanda ai più reconditi anfratti della psiche umana per osservarne le zone maggiormente oscure. Il Nostro canta, si fa per dire, mediante un growling assolutamente inintellegibile ma, tuttavia, ideale complemento alla musica. Detto del riffing, occorre rilevare che Dean se la cava bene anche con gli assoli di chitarra e il basso. In particolar modo, emerge chiaramente la bravura necessaria per ingannare l’orecchio in virtù di un drum programming che, anche concentrandosi cercando di sviscerarlo in ogni sua parte, emula perfettamente l’azione umana.

Grazie a questa abilità, le song presentano numerosissimi cambi di tempo, sfociando spesso nell’inferno dei blast-beats, rendendo così il tutto assolutamente, definitivamente possente. Ecco, questo è un altro pregio. Contrariamente a parecchie one-man band, che non riscono a elaborare un sound simile a quello delle formazioni in carne e ossa, il combo canadese eietta potenza a iosa imitandole con efficacia, e pure bene. Tanta potenza, insomma, unitamente a un livello energetico di tutto rispetto per un sound a tratti devastante. Sound ordinato e fluido, che scorre con facilità nei meandri del cervello.

Tirando le somme, “Hymns for the Lesser Gods”, se osservato da un sistema cui l’unico parametro di giudizio siano i brani, disegnerebbe un’insufficienza piena. Ma, guardandolo nella sua globalità, emergere l’originalità di uno stile che non ha eguali, il che alza la valutazione critica complessiva.

Infine, un bravo a Brendan Dean che, con la sua idea e la sua sterminata passione, consente di aggiungere una postilla brillante di nero al libro della Storia del death metal.

Daniele “dani66” D’Adamo

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