Recensione: – I –
Essere sorpresi è sempre una bella cosa: ed anche quando non avresti scommesso più un solo centesimo circa una band davvero in grado di portare nuova linfa vitale ad un genere ormai abusato a stracolmo di band caricaturali quali è il technical death metal oggigiorno, ecco arrivare la tanto attesa ed allo stesso tempo sorprendente smentita dalle gelide lande della Federazione Russa.
Dal gelo vengono i Bufihimat, aggredendo l’ascoltatore con un disco esaltante quale “I”, pubblicato in maniera del tutto indipendente tramite (per ora) digital release su Bandcamp. Un disco che esalta appunto, e lo fa partendo già dalla cover, ennesimo capolavoro del noto artista nostrano Paolo Girardi, colui che ha disegnato quel vortice indefinito a mo di girone infernale che fa bella mostra di sé sulla copertina. Una rappresentazione perfetta di quella che è la musica prodotta dai russi: un vortice schizzato di death metal tecnicissimo ma allo stesso tempo, difficile a credersi, carico di feeling: tutto l’album è infatti pregno di un’atmosfera sinistra che si va ad aggiungere al consueto, martellante cinismo sonoro tipico del genere da loro suonato.
Ciò è a merito del talento unico che i Bufihimat hanno nel trasformare i loro strumenti in macchinari irriconoscibili ed arcani: chitarre che suonano come uragani sonori indefinibili si uniscono ad una batteria capace di ritmi forsennati ma sempre attenti a sottolineare scenari caleidoscopici, pregni di dissonante malessere. La parte migliore del sound Bufihimat è data proprio dalla costante ricerca del caos sonoro, quel mix di saliscendi forsennato tra dolore assoluto, calma apparente e schizofrenia: i riff sono assolutamente inusuali, con improvvisi stop & go di volume e continui, massacranti cambi di tempo. I Bufihimat hanno quel raro pregio di saper davvero far proprie le basi di un certo genere musicale e reinterpretarle a proprio piacimento: “I” vede nel proprio organico episodi al cardiopalma continuo quali ‘Human Hive’ oppure ‘Qualia’, alcuni tra i pezzi migliori del lotto in un platter assolutamente privo di riempitivi o qualsiasi momenti banale. Tutto il disco vibra di una continua ricerca sonora che, affondando le radici nel technical death più canonico, ne rielabora i canoni tipici ora estremizzandoli, ora condendoli di inaspettate e stranianti pause forse definibili come ‘technical doom death’, ma che in realtà solo la band stessa saprebbe definire in maniera completa ed esaustiva.
“I” è davvero un disco in grado di mettere in pesante imbarazzo qualsiasi essere umano in grado di volersi cimentare con una descrizione del suddetto: più volte ho provato ad elaborare una descrizione ‘canonica’ di questo disco e più volte ho fallito, come tuttora probabilmente, segno che quando la genialità è così spiccata alla fine definirne i contorni è sempre un’impresa titanica, così come titanico è questo album che risuona come un terrificante viaggio su una versione assassina e psicotica delle montagne russe ( – scusate il gioco di parole non voluto – Nda) in cui non sai mai cosa potrà succedere, trattenuto in un costante mix di tensione ed angoscia in grado di portarti alla follia più esasperata. La produzione, tiratissima e straordinariamente a fuoco con in più uno strambo feeling gelido conferito al sound generale, perfettamente si lega a quanto costruito da questo quasi rivoluzionario ensemble di musicisti pazzoidi: e mentre scrivo queste mie ultime parole ‘He Saw Myself’, brano finale del platter, sfuma all’unisono con il mio fallimentare operato descrittivo…brano che rappresenta un vero e proprio capolavoro finale in grado di elevare il technical death in una fusione improponibile di spasmi rallentati ed accenti orchestrali in puro stile “Psycho”, capolavoro del Maestro Hitchcock.
I Bufihimat spuntano dal nulla piazzando sul mercato indipendente ( – spero ancora per poco, questi ragazzi meritano sul serio una label a farne le veci – Nda ) una delle migliori release dell’anno in campo non solo death metal ma proprio nel senso di musica heavy in senso generale: li capiranno in pochi e ne son certo, in fondo la storia ci ha insegnato che tutti i grandi geni son sempre stati visti come pazzi dalla gente comune.
Benvenuti all’inferno.