Recensione: I Am
Chi conosce i Flower Kings, chi conosce Tomas Bodin, probabilmente penserà di sapere già che cosa aspettarsi dal quarto disco solista dell’esperto tastierista svedese. Dopo aver prodotto una decina di full-lenght con la band principale e altri tre album in solo, Tomas sembrerebbe infatti ormai legato a un stile e a un approccio alla musica ben definito e difficilmente modificabile. Sono però proprio tali premesse a rendere la sua nuova creazione, I Am, una potenziale fonte sorpresa per i numerosi fan: e questo in virtù di tre differenti ordini di ragioni.
I primi cambiamenti rispetto alle precedenti opere emergono dal punto di vista della composizione. Non pensate male, Tomas non si è dato alla techno: tuttavia la complessità e il quadro di influenze qui riconoscibili supera, e non di poco, quanto mostrato in passato. Certo, il marchio di fabbrica resta quello dei suoi precedenti lavori, così come non manca una riconoscibile componente Flower Kings, affiancata però e talvolta, anzi, spesso superata da elementi anche molto differenti tra loro, sovente riconducibili al prog rock degli anni settanta: da Emerson Lake & Palmer ai King Crimson, passando per gli indispensabili Pink Floyd. Ma anche musica classica, jazz, un po’ di elettronica e molto rock: ingredienti forse già presenti in passato, ora riproposti in dosi e modalità differenti, con maggiore consapevolezza e capacità di sintesi.
Un’occhiata alla tracklist fornisce da sola segni più che evidenti del mutamento nell’approccio: tre soli brani di lunghezza molto elevata, divisi a loro volta in numerose sotto-sezioni (rispettivamente undici, otto e sei), per un totale di un’ora abbondante di musica complessa e raffinata. Un’impronta inequivocabile dell’impegno profuso per la realizzazione dell’album, e un altrettanto inequivocabile invito all’ascoltatore a dedicare altrettanta attenzione all’ascolto: sarà infatti necessario un lasso di tempo non breve per familiarizzare con i brani, ma alla lunga la costanza non mancherà di essere premiata.
Secondo fattore di rottura rispetto al passato è rappresentato dalla presenza di parti cantate. Non soltanto infatti Tomas si è avvalso nuovamente della collaborazione dei compagni di avventure Jonas Reingold (basso) e Marcus Liliequist (batteria) oltre che dell’amico Jocke JJ Marsh (già chitarra di Glenn Hughes), ma questa volta al suo fianco compaiono ben tre vocalist: Anders Jansson, Helene Schonning e la moglie Pernilla Bodin. Una svolta senza dubbio gradita che, pur senza intaccare la robusta presenza di stacchi strumentali, dona ai brani un maggior spessore e longevità, a tutto vantaggio della fruibilità del prodotto. In particolare piace la prova di Jansson, singer dotato di buona estensione vocale, capace di interpretare con espressività i vari cambi d’umore e i momenti più enfatici, spesso riscaldandosi e inasprendosi dove necessario.
L’ultima, notevolissima innovazione riguarda i testi, legati tra loro da un catena spessa e indissolubile. I Am è infatti un concept-album complesso e introspettivo, ricco di spunti autobiografici, che segue vita e sviluppo dell’interiorità di un uomo dal momento della nascita fino quello della morte e della reincarnazione. Liriche e musica si accompagnano a vicenda, unite da un legame stretto e indissolubile costituito dalla necessità prioritaria tradurre elementi della dimensione emotiva in coordinate sonore, come spiegato dallo stesso Tomas in sede di intervista. Anche a questo sono dovute alcune felici soluzioni in fase di songwriting. Le stesse tastiere e il delizioso piano infatti, pur svolgendo logicamente un ruolo fondamentale, in tensione tra atmosfere serene e altre maggiormente intense e concitate, non si pongono problemi nel cedere con un certa frequenza il centro della scena al resto della strumentazione. I riflettori finiscono così per illuminare ora i riff e gli assoli delle chitarre, ora gli irresistibili ritmi del basso (davvero ottima la prova di Reingold), ora la multiformi linee vocali, sempre evocative e mai monotone: tutto naturalmente in funzione del concept.
Sarà ormai evidente che non siamo di fronte al tipico solo-album di un tastierista, bensì a una rock opera complessa e ambiziosa, nata più dalla volontà di creare qualcosa di unico ed estremamente personale, piuttosto che dal desiderio di richiamare l’attenzione sul proprio strumento o sperimentare soluzioni nuove e insolite. Appositamente non ho voluto descrivere alcuno scampolo di brano, poiché un’opera di questo tipo risulta troppo articolata e mutevole per lasciarsi sminuzzare in frammenti più piccoli, fruibili singolarmente. Se si vuole apprezzarla pienamente, la si deve ascoltare nella sua interezza, dalla prima nota all’ultima, senza interruzioni e senza saltare alcun passaggio. Forse un approccio di questo tipo mal si addice al consumistico panorama musicale odierno, in cui all’abbondanza di offerta si accompagna una consumazione frenetica e talvolta eccessivamente rapida del prodotto: dunque se siete alla ricerca di un ascolto disimpegnato, guardate altrove. Ma se avrete la pazienza (e il tempo materiale) di scavare più in profondità nella musica, se sarete ben determinati a non riservare solo una manciata di ascolti distratti a un lavoro tanto elaborato e complesso, per quanto indubbiamente poco immediato, state pur certi di aver trovato un disco cui anche tra diversi anni dedicherete volentieri un’ora del vostro tempo.
Tracklist:
1. I (23:12)
– I. The Beginning
– II. The Wheel Spinner
– III. Day by Day
– IV. Mother’s Heart
– V. Speeder
– VI. They’ll fight for Me!
– VII. Fighters
– VIII. War is over
– IX. Aftermath
– X. The Angel of Dreams
– XI. The Awakening
2. A (21:28)
– I. Take Me Home
– II. The Tree of Knoweldge
– III. The Path of Decision I
– IV. The Prayer
– V. The Path of Decision II
– VI. Close the Deal
– VII. The Path of Decision III
– VIII. The Tube of Reverse
3 M (18:43)
– I. In the Land of Retrospect “Why / 7 Days at Kingdom’s Inn”
– II. Voice Macabre
– III. Dance Macabre
– IV. The Halls of Future
– V. The Path of Light I
– VI. The Path of Light II