Recensione: I Am Anonymus
Pochi mesi in anticipo rispetto al secondo come back nei Threshold, Damian Wilson è la voce del progetto Headspace, band nata nel 2006, dalla mente di Adam Wakeman, secondogenito del keyboard hero degli Yes. Adam viene da una famiglia di patiti dei tasti d’avorio (il fratello maggiore Oliver suona live per Bob Catley), ed è noto al grande pubblico come tastierista di Ozzy Osbourne.
Il mastermind inglese instaura un sodalizio con Pete Rinaldi (ex-Hot Leg), killer guitar player dal sicuro bagaglio tecnico, il già citato Wilson, Lee Pomeroy (It Bites) al basso e Rick Brook dietro le pelli. Il primo EP della band s’intitola I Am… e viene rilasciato durante gli show di supporto al tour europeo di Ozzy, nel 2007 impegnato nella promozione dell’album solista Black Rain.
Trascorso un lustro, il duo Wakeman-Rinaldi è pronto a stupire con un full-length ambizioso. I Am Anonymous (non inganni il titolo, non ha niente a che vedere con gli hacktivist internettiani) doveva essere un album meramente progressive, ma il risultato finale presenta influssi djent, insieme ad altre contaminazioni musicali.
Va subito premesso che il platter in questione è temerario nel concept e nel minutaggio, pecca di una palese prolissità, che però non ne inficia il valore di fondo. Il moniker stesso del combo anglosassone è ambiguo: ‘headspace‘ significa sia ‘spazio mentale/mentalità’, sia, più trivialmente, lo ‘spazio vuoto’ lasciato in fase d’imballaggio. Insomma qualcosa che serve, ma resta impalpabile.
Anche l’artwork ha la sua da dire, trattasi di un ossimoro nudo e crudo: una bambina vestita elegantemente si dirige verso una città presa di mira da un pesante bombardamento.
Questo si spiega ricordando che l’album è un concept «about you [the listener] and your relationship with humanity, ultimately the battles fought within the mind from child to man» (riguardo te, ascoltatore, e la tua relazione con l’umanità, fino alle battaglie combattute entro la mente da quando si è bambini fino all’età adulta). Tema ricercato, filosofico, lontano dal concetto di musica easy-listening, che per di più si basa, principalmente ma non in modo esclusivo, sul Modello Kübler-Ross, o Modello delle cinque fasi dell’elaborazione del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione). Dunque il leitmotiv bellico, che pare intessere l’album con note di evidente antiamericanismo, parla, invece, di una guerra anche metaforica e interiore, altrettanto devastante per il singolo che la combatte e la subisce.
Tutto è molto curato, dagli arrangiamenti, alle linee vocali (a tratti davvero originali), persino i lunghi testi nel booklet sono invitanti nella loro sprezzatura grafica (in una sorta di geminazione compaiono, a fianco delle liriche vere e proprie, altri testi cancellati).
L’album si apre con le note semiacustiche droppate di “Stalled Armageddon”, lungo brano che inizia con cadenze marziali e virtuosismi pianistici. Al terzo minuto i ritmi si fanno trascinanti, sulla falsa riga dei migliori Fates Warning, poi brilla il main-theme interpretato dalla chitarra di Rinaldi. Un opener magnificente, con buon groove e creatività, tra sfuriate prog. e rallentamenti intimisti. Il finale è brusco e subito seguito dall’incipit arzigogolato di “Fall of America”. Influssi di Dream Theater, Riverside, Porcupine Tree rendono il sound degli Headspace avvolgente e gratificante, la voce di Wilson gli dona accessibilità e tono “familiare”. Tra bending sapidi e strofe ipermetriche, il secondo brano in scaletta pecca, però, per eccessivo minutaggio.
Dopo un’accoppiata di brani così poderosa, “Soldier” è una breve ballad, scandita da rintocchi mesti e il piano di Wakeman, che strappa più di un sospiro. I testi sono toccanti: «But there is no answer when you ask where it’s all leading / There must be something we can say or do». Senza dubbio una delle migliori ballad sentite da tempo in ambito metal.
Di qui in avanti l’album prevede altre cinque canzoni dal minutaggio medio-lungo. Si richiede una sana dose di resistenza e predisposizione all’ascolto. “Die with a Bullet” è tra i momenti più convincenti del platter: refrain sporco, tempi dispari inflazionati e ritmiche in risalto. Certo, un Portnoy alle pelli avrebbe compiuto miracoli, ma non ci si può lamentare. A metà del terzo minuto sembra di ascoltare i mitici Ark di Tore Østby, ma è al quinto che le atmosfere cambiano improvvisamente e ci ritroviamo in un soundscape ovattato, dove le linee vocali di Wilson con accenti atipici si rivelano geniali. Ascoltare per credere: si fatica a fare il verso al cantante inglese, che segue le sincopi del comparto musicale, con risultati davvero originali. Val la pena ricordarlo: una via per reinventare il prog. sta proprio nel ruolo d’assegnare alla figura cardine del cantante.
“In Hell’s Name” prende avvio con note d’organo e la voce fatata di Wilson (che qui si avvicina alla magia di Freddy Mercury) stride con le liriche «Doesn’t everybody heed emotions they can’t see? / Battered through time untold». Segue un crescendo mistico e teatrale. Al quarto minuto è la volta dell’esplosione metal, con inserti araboidi. Ottima la breve parentesi acustica all’inizio del settimo minuto, con tanto di violoncello. Nel finale oltre a gustose linee di basso, si segnala un incedere heavy in tremolo picking che non stonerebbe in un disco degli Helloween. L’ecletticità non manca certo agli Headspace.
Traccia numero sei, il brano più lungo del platter e con il titolo più originale: “Daddy Fucking Loves You”. L’inizio è una nenia rassicurante, sembra di star ascoltando un disco pop. Nel quarto d’ora di cui si compone tale suite caleidoscopica, però, si alternano parentesi graffianti degne del già citato gruppo di Jim Matheos, a sezioni spiaccatamente djent e comparti crazy à la Haken (che nel 2011 hanno confermato la loro classe con Visions). Al centro del brano ammalia una fugace e toccante sezione opethiana, poi all’inizio dell’undicesimo minuto tutto tace e subentrano i tasti d’avorio accompagnati da un violoncello in lontananza. Un sogno a occhi aperti, con subitaneo risveglio “cynico” e ritornello in loop: «Change sides more than you give / Change sides, everybody seems to want to blame». Il combo anglosassone è bravo anche nel creare crescendo corali e la voce di Wilson aiuta non poco. Dopo un sample straniante con tanto di pulsazioni cardiache il brano si chiude circolarmente: capolavoro.
“Invasion” attacca con un basso pulsante, ma è un brano che non staglia nel resto della scaletta. Il bridge è un pugno nello stomaco: «Invaded our faith / Invaded our skin / Invaded from within / Don’t you see they’re taking us? / The Criminal Nation has led this invasion». Alcuni synth di Wakeman suonano troppo robotici, i filtri alla voce di Wilson sono pleonastici. Chiari i rimandi a brani come “Outcry” di A Dramatic Turn of Events di Petrucci & Co. ma il guitarwork di Rinaldi dimostra personalità.
Ormai stremati da tanta tecnica e inventiva, l’ultimo brano, “The Big Day”, scorre come un toccasana distensivo per i primi tre minuti. Sulle note più alte ed eteree Wilson sembra Andre Matos. Gli Headpsace non sanno trattenersi, tuttavia, e il pezzo invece di essere una ballad che chiude un album già prolisso, prosegue con la solita pesantezza djent, un assolo d’hammond rubato a Ryo Okumoto e i virtuosismi di Rinaldi. Voglia di strafare? Mancanza di maturità? Entrambe, il disco poteva terminare in modo più sobrio, a prescindere dal concept.
Difficile commentare oltre I Am Anonymus, un disco che merita più di un ascolto attento e resta impresso nella memoria del progster per definizione, con i suoi pregi e difetti, così com’è stato per Harmagedon degli Affector, pubblicato anch’esso nel 2012. È ancora presto per conoscere gli sviluppi del progetto di Wakeman; di certo un secondo full-length, più conciso e quadrato, farebbe la gioia di molti e garantirebbe maggiore visibilità al combo anglosassone.
In the final row, aboard a falling plane,
a man looks out into space that he once had known,
but is now replaced with a mighty hole and an army base,
as his thoughts go back to his childhood days
at his family home in the States
With an English tongue and a Christian creed,
he was taught to learn and to believe
that if a man should give up his life for faith,
then he’d exist beyond this place
in the heart of God…
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)