Recensione: I Am Legion
A distanza di un solo anno da “In His Infernal Majesty’s Service” tornano i Witchery con il loro settimo album da studio, il furente e maligno “I Am Legion”. I nostri svedesi non sono certo dei pivellini, essendo in giro da una ventina d’anni (l’esordio “Restless & Dead” è datato 1998) e provenendo da realtà consolidate come The Haunted e Arch Enemy (giusto per dirne due), e durante l’ascolto dell’album la loro preparazione si sente eccome. La loro ricetta si può tranquillamente riassumere come un thrash metal arroventato e lacerante, aggressivo, nerissimo: schegge di black e di death svolazzano qua e là, irraggiando la musica del quintetto scandinavo con tonalità alternative che ne irrobustiscono una resa finale che, comunque, si mantiene ben salda su territori smaccatamente thrash. Dieci brani più una intro, per un totale di quaranta minuti scarsi: quaranta minuti di aggressione sonora arcigna e malvagia che, nonostante gli echi slayeriani disseminati qua e là, non si fa mancare sporadici sprazzi di melodia infetta e conditi da dissonanze malsane e rasoiate stridenti; la sezione ritmica si mantiene sempre frenetica e possente, pestando il giusto senza strafare e sostenendo da un lato un lavoro di chitarre ruvido, grasso e snervante che dispensa elettricità ad ogni piè sospinto, dall’altro una voce crudele che alterna senza problemi scream violento e acido a brevi stilettate di growl. Altrimenti detto: qui ci si mena, ma senza scadere nella mera macelleria sonora. Più che le normali bastonate che ci si aspetterebbe da un album thrash (o meglio, oltre alle suddette bastonate), infatti, sono le atmosfere ruvide e mefitiche a giocare un ruolo fondamentale in questo “I Am Legion“, tratteggiate in modo semplice e diretto da un giro di basso qua e da un arpeggio là e capaci di avvincere fin da subito l’ascoltatore.
E poi ci sono le mazzate: già dall’intro “Legion” si capisce che si sta per riceverne una dose considerevole, con i primi echi del gruppo di Tom e Kerry che si fanno largo nel magma sonico dei nostri; stacco improvviso ed ecco che una melodia che profuma di Goblin introduce la marcia nera “True North”, inesorabile nel suo incedere lento e minaccioso. Le tastiere (sì, ci sono delle tastiere), ben lungi dal diluire la cattiveria del brano, ne aumentano l’afflato maligno sorreggendo riff freddi e la voce di Angus, tornando poi nel ripostiglio quando non servono più. “Welcome Night”, invece, parte tesa, creando aspettativa e macinando inquietudine con un buon lavoro sottotraccia, esplodendo poi nella seconda parte (che profuma quasi degli ultimi Amon Amarth), salvo poi sgonfiarsi un po’ nel finale. “Of Blackened Wing”, saltella tra velocità scandite e opprimenti e riff maligni, salvo poi chiudersi con un exploit dal retrogusto quasi punk, mentre la successiva “Dry Bones” punta tutto sulla carica e sul groove, con tempi scanditi e martellanti e, qua e là, qualche scheggia melodica, cedendo nella seconda metà a una sezione strumentale che, seppur affascinante, non riesce a far spiccare il volo a un brano riuscito solo a metà, un po’ troppo dimesso. Per fortuna che con la seguente “Amun-Ra” e il suo incipit, anche qui, punkeggiante, i nostri si risollevano alla grande, confezionando un brano carismatico e violento, acido e che invoglia da subito all’headbanging ignorante. Il rallentamento centrale non fa che incattivire ulteriormente la traccia, gettandola in un vorticoso e luciferino marasma sonoro prima di accelerare di nuovo per il finale agguerrito. “Seraphic Terror” continua a martellare, snocciolando con una certa insistenza riff di matrice slayeriana, il cui profumo si rafforza nella seconda parte della traccia, seminando il panico grazie a bordate sferzanti e un assolo sulfureo, prima di cedere terreno a una furia più tipicamente black. Si arriva così a “A Faustian Deal”, traccia nera, crudele e minacciosa nel suo incedere scandito e inesorabile non privo, però, di momenti a modo loro melodici che mi hanno ricordato i Dimmu Borgir di una decina di anni fa. Un arpeggio malato apre “An Unexpected Guest”, dall’incedere quasi rockeggiante sporcato, però, di un’inquietudine fetida ed asfittica che la rende anche più interessante, donandole la giusta atmosfera. La successiva “Great Northern Plague” altro non è che un interludio atmosferico malato, marziale, dall’intenso profumo inquisitorio ma grossomodo superfluo che apre la strada alla conclusiva “The Alchemist”, furibonda frustata thrash durante la quale il gruppo si congeda dal suo pubblico con una coscienziosa dose di calci in faccia, interrotti bruscamente per cedere il passo, dopo due minuti di silenzio, alla voce minacciosa ma ovattata di Angus che augura la buonanotte a tutti.
Che dire, dunque, di questo “I Am Legion”? che i nostri svedesi hanno confezionato un album che, pur vivendo essenzialmente di atmosfere, non si fa mancare una buona dose di violenza e stempera un certo citazionismo con l’ottimo gusto di chi rielabora secondo le necessità del caso senza bisogno di plagiare: un album ottimamente bilanciato che, nonostante qualche episodio un po’ sottotono che gli impedisce di entrare per direttissima nel novero degli album da avere, si eleva al di sopra del calderone di uscite tutte uguali grazie ad un tiro ben indirizzato, una produzione azzeccatissima e una carica esecutiva più che degna. Certo, non sarà “Hell Awaits“, ma il suo dovere lo fa, eccome!
Pollice alto, signori.