Recensione: I Dreamed of Electric Sheep

Di Edoardo Turati - 10 Novembre 2021 - 12:10

Se mai vi trovaste a passare da Chiari un piccolo comune in provincia di Brescia, credo sia più che opportuno fare un salto alla storica e tutt’oggi molto apprezzata forneria Marconi. Già perché al di là delle mere capacità culinarie, è stata resa immortale proprio dal musicista clarense Mauro Pagani; è stato lui infatti a proporre Forneria Marconi come uno dei possibili nomi dell’allora ancora germinale band italiana (l’altro in lizza era Isotta Fraschini, nota marca italiana di automobili di lusso). Si cercava un nome insolito, d’impatto, che rimanesse nella memoria proprio perché difficile e poco fruibile. Forneria Marconi non era male in effetti, anche se mancava ancora qualcosa, un aggettivo che andasse anche a definire e rimarcare la qualità della musica proposta; Alessandro Colombini fondatore (insieme a Mogol) della gloriosa label nostrana “Numero uno” suggerì quindi di anteporre Premiata a Forneria Marconi; la cosa piacque a tal punto che tante altre band presero esempio usando nomi articolati come Il Balletto di Bronzo, Il Rovescio della medaglia o Raccomandata con Ricevuta di Ritorno. Il nome era quindi altisonante in Italia ma forse improponibile quando la band cominciò i propri tour in giro tra Europa ed America. Quindi per manifesto impulso inerziale Premiata Forneria Marconi diventò semplicemente PFM.

Ora di quella meravigliosa dand sono rimasti solamente i grandi Franz Di Cioccio e Patrick Djivas che ci stampano il loro bel viso a tutta copertina in una fusione sovrapposta di volti e di idee, con un titolo che suscita particolare curiosità e soprattutto aspettative: I Dreamed of Electric Sheep. Il disco, come di consueto per la band, esce in doppia versione, inglese e italiana (quest’ultima come secondo disco, proprio a rimarcare la loro internazionalità nel caso ce ne fosse bisogno) e anche stavolta siamo al cospetto di un concept che ruota tutto intorno a un interrogativo, nonché titolo del libro di Philip K. Dick, da cui è stato tratto il meraviglioso film Blade Runner di Ridley Scott: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

Dai che un po’ d’interesse ve lo abbiamo suscitato, al di là del quanto meno bizzarro titolo dell’opera, il desiderio di sapere cosa una delle migliori band italiane di sempre è riuscita e generare dopo 4 anni dal penultimo Emotional Tattoos. Per questa recensione ci siamo basati sulla versione inglese dell’album, oltre che per scelta di puro diletto, anche e soprattutto per avvalorare la natura cosmopolita della PFM in ogni sua sfaccettatura.

 

 

I nostri ci raccontano di come il mondo intorno a noi stia repentinamente cambiando e di come l’elettronica e i computer ci stiano prevaricando e per certi versi soffocando. Il disco è relativamente breve, solo 40 minuti distribuiti su 10 tracce, quindi niente lunghe e articolate suite tipiche del genere venendo già a mancare una “conditio sine qua non” del progressive più puro. Ma non abbiate timore, il prog c’è eccome, anche se spesso contaminato come ad esempio l’opener “Worlds Beyond” brano strumentale, mescolanza ben dosata in stile heavy-prog-sinfonico davvero gustoso aperitivo di tutto il convito musicale. Il cantato si inserisce nel secondo brano “Adrenaline Oasis” una ballata introdotta da un estatico pianoforte. Qui le coordinate sono più pop-rock ma la melodia è davvero coinvolgente sino a metà brano, quando il sound introduce tastiere e suoni elettronici tramutandosi in un pezzo folk e sostenuto, con reminiscenze remote e opalescenti di “È Festa” (terza traccia di Storia Di Un Minuto). Si rallenta nuovamente con “Let Go” il pezzo meno progressive (e, a nostro avviso, anche meno riuscito) in assoluto del disco, per poi accelerare nuovamente con la seguente “City Life”; grande spazio alla chitarra elettrica per un brano veloce e incalzante che dona un eccellente dinamismo al concept. “If I Had Wings” rallenta nuovamente i beat diventando eterea e celestiale con le tastiere a sostegno del pianoforte in un pezzo tutto sommato più che gradevole. “Electric Sheep” è tutta del basso di Djivas che domina e detta i tempi come un collaudato maestro d’orchestra: fluida, incalzante e dinamica. La successiva “Daily Heroes” ci regala una manciata di blues per un pezzo spensierato e brioso, che sul finale quasi inaspettatamente lascia libero sfogo al violino di Fabbri che duetta mirabilmente con la chitarra elettrica di Sfogli. “Kindred Souls” è invece un alto brano spirituale e diafano con una ricca pletora di strumenti (tra l’altro flauto e cornamusa) e di ospiti illustri (Steve Hackett e Ian Anderson). Chiudono il disco le due Transumanze strumentali inevitabilmente contigue. La composizione è serratissima, con le tastiere che si prendono gran parte della scena in un pezzo dall’acido sapore funk in cui emergono le immense doti degli interpreti, chiaro omaggio alla loro amata musica Seventies di cui sono stati padri e maestri. I Dik Dik nel ‘70 chiedevano “Sai cos’è l’isola di Wight?” e la PFM sa benissimo cosa sia e dove si trova, l’isola che ha ospitato il più bel festival di musica prog-rock della storia.

La Premiata Forneria Marconi ha contribuito in parte a fare la storia di questa musica, e saremmo degli sprovveduti se pensassimo di paragonare l’odierna proposta con quella messa in campo da quella strepitosa band seminale ed immaginifica decadi fa. Oggi la PFM è sinonimo di prog moderno, suonato magistralmente, ma resta una band che ha nel cuore sempre e comunque la non troppo lontana isola di Wight.

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