Recensione: I, Moloch

Di Daniele D'Adamo - 27 Marzo 2025 - 16:40

A.D. 2025. La globalizzazione del metal ha prodotto risultati inaspettati in Paesi in cui, addirittura, il metal stesso è clandestino per via delle dure leggi politico/religiose che li governano. Uno di questi è, o meglio era, la Turchia, ora agganciata maggiormente all’Europa sì da consentire ai propri musicisti di esprimersi con maggiore libertà.

E turchi sono gli Shrine Of Denial che, con “I, Moloch“, debuttano ufficialmente nel mercato discografico internazionale grazie al lavoro incessante dell’etichetta indiana Transcending Obscurity Records, specializzata nello scovare band che fluttuano nell’underground.

I Nostri praticano il blackened death metal, profondendo molti sforzi per cercare di restare ancorati ai dettami stilistici propri del genere. Si può dire che ci riescano, anche se non si tratta di un’estremizzazione del tipo di quella dei Behemoth, giusto per tirar giù un esempio. Al contrario, si può dire che ci sia ancora una buona dose di death metal classico, e cioè di quello primigenio. Non è dato di sapere se si tratti di una scelta pensata, quella di non abbandonare del tutto la foggia musicale degli antichi (Possessed, Morbid Angel, ecc.), oppure di un preciso piano per raggiungere la completa professione del succitato sottogenere metal.

Comunque sia, il combo di Ankara dà prova di saperci fare, nella realizzazione del disco. Il sound è professionale ma, soprattutto, già definito in tutti dettagli nonché dotato di una marcata personalità. Benché si tratti di un debutto, insomma, non ci sono tentennamenti su quella che è la strada da percorrere. Oggi e domani. Un lavoro adulto, sicuro di se stesso e di quello che deve fornire per realizzare qualcosa di fatto e finito. Il che fa venire il sospetto che i cinque compagni d’arme abbiano un retroterra culturale profondo, ben formato.

A parere di chi scrive un elemento chiave è il cantante Eray Nabi, molto bravo e assai abile a proporre un growling a petto in fuori. Secco, assai variabile, in grado di dar vita a linee vocali tutt’altro che monocordi anzi (“A Sanctuary in the Depths of the Realms“). La sua interpretazione è ferma, decisa, giova ripetere dai toni professionali, atta a legare il suono partorito dai suoi colleghi.

Nulla da eccepire anche per ciò che riguarda l’impegno dei due chitarristi Onur Uslu e Denizkaan Aracı, inflessibili nel proporre un riffing duro, robusto ma anche piuttosto vario, sia per quanto riguarda la parte ritmica, sia per gli assoli, vere stilettate nella schiena. Impressionante pure la sezione ritmica, formata da Ahmet Ünveren al basso e Berk Köktürk alla batteria. Impressionante poiché capace di passare con perfetto sincronismo da pesanti mid-tempo alle spaventose bordate dei blast-beast, non ultimo nella capacità di dar luogo a micidiali stop’n’go (“Pillars of Ice“).

Un po’ piatto, invece, il songwriting. Seppur molto bravi ad aver creato un marchio di fabbrica tutto loro, gli Shrine Of Denial fanno fatica a creare brani ben diversificati fra loro. Ognuno di essi è costruito anche bene ma, confrontato agli altri, non riesce ad emergere dal gruppo con risolutezza. Tale difetto, se così si può definire, non inficia totalmente il valore globale di “I, Moloch“, anche se occorre tenerne conto quando, alla fine, si tirano le somme.

Tuttavia la speranza per un futuro migliore c’è, ovvero “Temple of the Corpse Misuser“, la closing-track, che lascia intravedere una composizione più variegata, dal valore artistico più che buono. Proprio per questo, la sensazione che si prova è che gli Shrine Of Denial abbiano dei discreti margini di miglioramento. Del resto, “I, Moloch” è il loro primo tentativo.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Genere: Death 
Anno: 2025
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