Recensione: I Will Survive
Via, diciamolo pure.
Dall’accoppiata Greer / Slamer e da un moniker come quello dei Seventh Key non ci attendevamo nulla di meno.
Del resto, dopo averne saggiato con piena soddisfazione le capacità in varie occasioni (i precedenti album pubblicati nel 2001 e nel 2004 ed il sodalizio negli Street, ad inizio anni ottanta) e conoscendone pregi e virtù artistiche, non potevamo presumere altro che questo: l’uscita di un nuovo eccellente capitolo, a proseguire una discografia tanto esigua nei numeri, quanto livellata verso l’alto in termini qualitativi.
Detto fatto: “I Will Survive”, disco che segue cronologicamente l’omonimo esordio e “The Raging Fire” (2001 e 2004 per l’appunto) è il prodotto che per un amante di generi quali AOR, Hard Rock e melodic metal rappresenta la classica uscita su cui, volenti o meno, non esistono possibilità di scelta. Inevitabilmente, va quanto meno ascoltata.
Non esistono dubbi, infatti, in merito all’esperienza ed all’abilità di una coppia di musicisti che sono parsi, sin dalla prima collaborazione, come perfettamente complementari l’uno all’altro.
Eccellenti songwriter entrambi. Buon cantante ed ottimo bassista Greer; grande chitarrista, tastierista ed arrangiatore Slamer. Da un binomio simile insomma, sembra impossibile poter ascoltare qualcosa di diverso da melodie coinvolgenti ed ottime canzoni. Quelle, per intenderci, ben rappresentate proprio in questo “I Will Survive”.
Chi già conosce il progetto Seventh Key, saprà con immediata certezza cosa trovarvi all’interno: brani dal sound profondo e scintillante, atmosfere spesso avvolgenti, bei ritornelli e grandissima cura per i particolari. Una serie di caratteri che definiscono da sempre la carriera, in particolare, di un eminente artista come Mike Slamer, elementi e strutture stilistiche già apprezzate in passato, oltre che nei già citati platter dei Seventh Key, anche nella grandissima esperienza con gli Steelhouse Lane, side project entusiasmante del quale non smettiamo mai di sperare in una nuova release.
Hookline levigate ed arrangiamenti ricchi di eleganza, come quelli riscontrabili in brani quali “I See You There”, “Time And Time Again” e “When Love Sets You Free”, in cui classe a profusione, melodie raffinate, cori stellari e suoni rotondi, delineano il profilo ideale di come deve essere un grande pezzo AOR. Ed è proprio in questo che eccellono Slamer e Greer: nel saper miscelare con assoluta maestria la grandeur di influenze sublimi, mettendo insieme riferimenti a Survivor, Journey, Boston, Tyketto e Kansas (beh, troppo facile dirà qualcuno: Greer è il bassista di questi ultimi da più di venticinque anni!) per darne un esito eccitante e carico di musicalità, moderno, coinvolgente, dai sapori dolci come miele e dai colori cromati come la carrozzeria di una potente fuoriserie.
L’album non conosce particolari momenti di stanca o battute a vuoto significative: forse un pelo statica appare la sola ballad “Sea Of Dreams”, imperniata su di un impasto vocale che sa molto di Kansas ma che risulta piuttosto “ferma” ed interlocutoria. Meglio l’altro episodio “lento” in scaletta, la solare “What Love’s Supposed To Be”, canzone dalle romanticherie assortite che si accende in un ritornello delizioso e carico di vitalità.
Potrebbero essere proprio gli Steelhouse Lane invece quelli che si ascoltano in “Lay It On The Line”, “The Only One” (chi si ricorda “Metallic Blue”?) e “I Want It All”, mentre succede di avere qualche reminiscenza dei Whitesnake nell’approcciarsi a “Down”, traccia che rimembra di primo acchito Jimi Jamison ed i Survivor, per poi rivelare un inciso che pesca direttamente dai suoni di “Slip Of The Tongue” proprio degli Snakes.
Abbiamo citato Jimi Jamison, non a caso: in effetti la prova al microfono di Greer sfiora – nemmeno a dirlo – livelli d’eccellenza, ricordando talvolta le vocals del sommo Jamison, per avvicinarsi, in altri frangenti, alle tonalità tipiche di un altro asso come Danny Vaughn, ben riconoscibili – ad esempio – nell’esuberante “It’s Just a State of Mind”.
In un panorama che, a costo di apparire ripetitivi, non possiamo definire in altro modo che eccellente, spicca poi l’iniziale title track “I Will Survive”. Un brano per certi versi atipico, che fondendo tastiere, chitarre e suoni di archi, mostra una ricchezza strutturale decisamente non comune. I Kansas in questo caso, paiono più di un’immagine sbiadita, ricordandone da vicino la versione con John Elefante alla voce.
Difficile insomma, reperire motivi di critica in un disco tanto piacevole e ben realizzato come questo “I Will Survive”.
A distanza di quasi dieci anni, Greer e Slamer hanno realizzato l’ennesimo capitolo di grande livello, mostrando il consueto stile energico ed elegante che sappiamo appartener loro, in un album dai consensi – al solito – assicurati.
Il rischio ormai, è quello di poter sorprendere solo in caso di imprevedibili e del tutto improbabili scivoloni…
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