Recensione: Ice Fleet
I Kauan spezzano parzialmente la cosiddetta “tradizione degli album in coppia”. Questa cosa l’avevo spiegata recensendo “Sorni Nai“. Pare infatti che “i russi che cantano in finlandese” tendano a fare due album accomunati da una cifra stilistica, i successivi due da un’altra. Prima sono venuti “Lumikuuro” e “Tejtäljän Laulu”, fulgidi esempi di black atmosferico e posteggiante, ma sicuramente atipico. I successivi “Aava Tuulen Maa” e “Kuu” sono poi passati ad un post rock puro e rugiadoso. Infine sono arrivati i due monoliti, “Pirut” e “Sorni Nai”, due album di matrice atmoblack (pur con un’interpretazione molto personale), concept paranormale e struttura da opera unica divisa in canzoni solo sulla carta. È venuto ancora “Kaiho” che riportava la rotta della band verso il post rock, non più rugiadoso e primaverile, ma tundresco e glaciale. Ed eccoci qui, a tre anni da “Kaiho”, con il nuovo “Ice fleet”.
Disco che fa drizzare le antenne già per il fatto di avere un titolo in inglese. Ma tranquilli, tutte le canzoni hanno titolo da mille laghi, così come le poche liriche sparse qua e là. Già, perché “Ice fleet” presenta tre episodi strumentali su sette, ma non è che negli altri quattro il cantato pulluli. Detto questo, si era detto, “Ice fleet” non prosegue sui solchi di “Kaiho”.
Che aspettarsi dunque, sotto l’acquerellosa e minimale copertina di quest’album?
Quello che ci troviamo innanzi è, per molti aspetti, un ritorno a “Sorni Nai”, anche se con atmosfere davvero molto scarne (questo sì è in linea con l’album precedente).
In effetti, questo nuovo album di Anton Belov e soci riprende la formula della “canzone unica”, ma la perfeziona. Fa davvero impressione, perché uno può ascoltare questo disco anche 50 volte senza sapere quando una canzone inizia e l’altra finisce. Si va avanti in un mare di post metal (post, non atmospheric) anche abbastanza classico, omogeneo, effettivamente ben assemblato. In effetti, durante i 41 minuti di “Ice fleet”, l’unico passaggio che si nota dividere distintamente due canzoni è quello tra la rarefatta intro “Enne” e le dirompenti chitarre che aprono in “Taistelu”, chitarre che veramente danno l’idea di una flotta di corazzate in movimento sul mar di Barents.
Capitano Ramius, è lei? Sarebbe forse bello, ma questo non è l’Ottobre rosso e nemmeno l’ammutinamento della Storoževoj. Ma sì, l’album ha un concept e ancora una volta la storia trattata è un X-file polare artico: il mistero della spedizione Franklin.
Ciò detto, gli antecedenti discorsi di omogeneità, uniti alla parola “post”, potrebbero far affiorare l’idea che questo disco sia una palla. Ciò non è affatto vero. Da un lato, a favore dell’economia di quest’album giocano i 41 minuti di durata. Dall’altra, per quanto questo sembri il disco più “ordinariamente post” dei sovietici*, rimane comunque un disco al 100% firmato Kauan. Sarà la chitarra di Belov, che per qualche ragione non fa nulla di speciale a livello tecnico ma è sempre riconoscibile. Saranno forse quelle specifiche atmosfere di gelida, grandiosa, totale desolazione, una desolazione ghiacciata che si può praticamente vedere durante l’ascolto, soprattutto alla fine. Fatto sta che “Ice fleet” porta in sé il watermark di chi l’ha creato.
Un piccolo difetto, però, quest’album lo ha. Ormai è l’ottavo dei Kauan. Ormai ci siamo abituati alla loro proposta. Riesce difficile parlare di quest’album perché l’unica cosa che viene in mente è “beh insomma, è qualcosa che da loro abbiamo già sentito, solo più scarno e con meno sfumature sonore”. Eppure parliamo di un album che non ha al suo interno alcuna sbavatura. Anzi, probabilmente è quello meglio composto. Così come probabilmente chi si accosterà ai sovietici a partire da quest’album riterrà “Ice fleet” uno dei loro lavori migliori anche dopo aver ascoltato il resto.
Insomma, vale una massima che da tempo non usavo. “Bello, ci manca solo l’effetto sorpresa”.
Nota
* Dico sovietici (o anche russi) perché 4 elementi su 5 sono ucraini ma la testa pensante è sempre il signor Bianchi (Belov) da Čeljabinsk.