Recensione: Iced Earth

Di Abbadon - 22 Maggio 2003 - 0:00
Iced Earth
Band: Iced Earth
Etichetta:
Genere:
Anno: 1991
Nazione:
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75

Inizio anni 90. Con il progressivo affievolirsi della onda dell’heavy e del thrash metal, nel cuore dell’Europa sta prendendo forma e sostanza il fenomeno power. Seguendo la guida di band come Rage e Helloween, tra le prime a speriementare questo nuovo tipo di musica, tirata, potente e veloce, dicevo al seguito di quelle band si vanno formando nuovi gruppi che da lì a pochi anni avrebbero spadroneggiato nel prima nel vecchio continente, e poi anche sul pianeta (Blind Guardian su tutti). Tra gli uomini che seguono questa evoluzione musicale vi è anche il chitarrista americano Jon Shaffer, che nel 1991 irrompe assieme alla sua band sul mercato con “Iced Earth”, album omonimo alla band, gli Iced Earth appunto. Il power degli Iced Earth non è power in senso classico, ma molto ruvido, fatto di riff granitici, che dal primo disco si sarebbero protratti in tutti i suoi successori, con buon consenso di pubblico e di critica, che trasforma presto la band in una vera e propria realtà.
Musicalmente il disco si presenta come detto sopra, ovvero grezzo nel suono, chitarre basse, rocciose, e alcune buone idee ma non un grande cantato (Gene Adams il vocalist) a dire il vero. A tratti alcune song risultano ripetitive e anche noiosette, ma in fondo nessuna ciambella esce subito col buco, e per essere un disco d’esordio, Iced Earth non è affatto male. A livello puramente grafico si può fare una distinzione di covers. Se quella col mostro in primo piano non mi dice molto, è davvero spettacolare la versione (americana se non erro) con l’angelo che cade tra i ghiacci,
disegno che rende fede al nome e anche al tipo di musica che siamo destinati ad incontrare, fredda, dura, aggressiva. Otto sono le song che compongono “Iced Earth”, abbastanza lunghe, come detto qualcuna davvero bella, altre che in qualche modo dicono molto poco su quello che sarebbe diventata dal band fin dall’album seguente, ovvero “Night of the Stormrider”.
L’opener non poteva che essere la title track, e qui ci troviamo di fronte a tutto quanto di buono aveva in testa Shaffer (che non sarà un chitarrista eccezionale, ma ottimo si)  quando la ha composta.  Le sensazioni trasmesse attraverso i riff, che spaziano dall’energia, alla rabbia, alla cattiveria, alla decisione, arrivano direttamente in testa e nel cuore di chi ascolta. Musicalmente la canzone è molto buona, cantata bene, con alternarsi di parti cupe a tratti di grosso impatto sonoro, ad altri spezzoni molto melodici che la band riesce a fondere in un ottimo combo sonoro, da ascoltare e riascoltare. Tiratissimo anche l’assolo, veloce e preciso, anche se non ultratecnico. Molto pregevole anche l’introduzione al vetriolo
di “Written on the Walls”, caratterizzata da un ottimo assolo di chitarra iniziale in sovrapposizione al riff di base, che poi si velocizza, purtroppo, in quanto secondo me la song una volta accelerata, almeno a livello di strofe, perde gran parte del fascino che ha nei primi secondi. Discrete le parti senza voce, rapide anch’esse, ma più gradevoli delle altre. Molto buono invece l’arpeggio che si ha nel tratto centro-finale, precedente un discreto assolo, un po ripetitivo gradevole. Buono il ritmo impostato a “Colors”, mid tempo squadrato e sonoro, tipico pezzo da headbanging, ma cantato secondo me male, e che alla lunga si ripete un pò, facendo scemare la qualità complessiva della composizione, che come idea non era affatto malaccio.
Melodica e rilassante si apre “Curse in the Sky”, per poi tornare sulla falsariga strumentale dei  precedenti pezzi, che non sto a ripetere. Buoni in compenso i cambi di tempo, come in tutto il resto dell’album.
Dolce ma inquientante l’intro di “Life and Death”, basata su una bella melodia soft, sulla quale Adams canta in maniera tutto sommato discreta, melodia che si protende per un terzo del pezzo, che diventa un ottimo lento. Molto belli gli effetti delle due chitarre combinate, che poi sfociano però in riffs veloci e ben pensati, suonati bene, ma che mi lasciano il dubbio che se la Life and Death fosse stata tutta come l’inizio ne avrebbe guadagnato qualcosa. Insieme ad “Iced Earth” probabilmente la miglior traccia del disco è la cortissima “Solitude”, nemmeno due minuti di arpeggio, basato su davvero poche note, ma composto benissimo, e che risalta davvero nel panorama di ruvidi riffs che abbiamo sentito finora. Inquietante la strumentale “Funeral”, inizio quasi suadente ma che accende un campanello d’allarme, che ha la sua conferma sul dolore trasmesso dagli strumenti alle orecchie dell’ascoltatore. Non mi piace per nulla la batteria nei tratti ove si sovrappone troppo sopra gli altri strumenti, mentre quando è tenuta
nella norma fa la sua buona figura. Buoni i passaggi dalle parti lente, molto gustose, a quelle veloci, purtroppo non all’altezza dei precedenti.
Il disco si chiude con “When the Night Falls”, un vero e proprio pezzo di granito per durezza e sterilità (in senso musicale, ovvero melodia praticamente a zero per gran parte della song), e che conclude un album tutto sommato buono per essere un esordio. Peccato siano abbastanza udibili delle pecche dovute in parte all’inesperienza (che in futuro sarebbe arrivata), e in parte a lacune della band stessa (che si sarebbero affinate anch’esse col passare degli anni).

Beh se uno vuole la discografia degli Iced Earth questo disco, l’inizio di tutto, non può mancare nella collezione, altrimenti consiglio sicuramente altre produzione della terra ghiacciata, come “Night of the Stormrider” o “Alive in Athens”.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Iced Earth
2) Written on the Walls
3) Colors
4) Curse in the Sky
5) Life and Death
6) Solitude
7) Funeral
8) When the Night Falls

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