Recensione: Iced Earth (30th Anniversary Edition)
“Io sono un uomo istruito, leggo costantemente libri importanti, ma ciononostante, non ho ancora capito che indirizzo prendere. Non so se, insomma, voglio vivere o spararmi”.
Le parole di Epichodov presenti nel Il Giardino dei Ciliegi di Čechov sarebbero un’iscrizione perfetta per catalogare, a distanza di ben trent’anni, la capacità che ha di dividere i fan la band statunitense degli Iced Earth in quanto, probabilmente, sono quelli che maggiormente suddividono il pubblico tra detrattori ed estimatori. Quindi ben venga la volontà di ripubblicare la loro omonima opera prima a distanza di tre decenni, perché questo permette, oggi, di riscoprire, come accade con qualche quadro di valore tenuto in soffitta e sommerso dalla polvere fino a un fortuito ritrovamento, un disco di alto livello, non il disco della vita però, che probabilmente riuscirebbe a mettere d’accordo il disgiunto pubblico. Iced Earth esce nel 1990 e nel 2020 la Century Media Records ne ripropone la ristampa, remixata e rimasterizzata, ma onestamente in una versione che non regala nulla di nuovo rispetto alla prima edizione, se non un trattamento meramente estetico; infatti di questa reissue si può trovare la confezione in vinile e un CD digipack a tiratura limitata. Per il resto un remaster per i brani originali che ci fa scoprire come nel 1990 questo disco si configurò come il contenitore di un variegato, complesso, teatrale, inclusivo e multiculturale mondo musicale. Questo perché da un ascolto attento e approfondito del lavoro emerge, superata l’euforia iniziale per la piacevole furia che entra nelle orecchie, una commistione di generi per nulla scontata o diffusa. A tal proposito diventa esemplificativa la bellissima ‘Funeral’ dove la cavalcata scandita dalla violentissima batteria di Mike McGill (si ascolti a tal proposito ‘Life And Death’) attraversa scenari epici, teatrali, militar e addirittura Black Metal; infatti è impossibile non trovare in questo brano (e in altri tipo ‘When The Night Falls’) i prodromi di quelli che saranno gli stilemi caratteristici dei Dissection o addirittura, per gli ascoltatori raffinati, somiglianze con l’intro parlato, sontuoso e monumentale, di ‘Via Dolorosa’ degli Ophthalamia. Forse tali accostamenti potrebbero apparire un po’ azzardati, ma l’intero album riserva queste piacevoli sorprese.
In questa commistione troviamo anche i richiami a un Heavy Metal più classico così come dimostrano le influenze degli Iron Maiden in alcune sfumature del già citato brano ‘When The Nights Falls’ o altri. Ovviamente tutto questo senza perdere di vista il Power e il Thrash, come ‘Colors’ testimonia, che, come noto, già dagli anni ’80 iniziava a cavalcare un’onda del successo e della notorietà dalla quale emergeranno degli autentici capolavori immortali.
Si è fatta menzione alla teatralità che emerge dall’ascolto dell’album, questa si materializza in virtù di un cantato recitato e altamente espressivo che diventa una costante, così come affiora, per esempio, dai brani ‘Iced Earth’, ‘Colors’, ‘Funeral’ e ‘When The Night Falls’.
Mettendo la puntina sul disco ci si imbatte subito nel brano ‘Iced Earth’, dove testo e musica sono del chitarrista Jon Schaffer (come la stragrande maggioranza dei brani presenti), che ha il compito di intraprendere il cammino della leggenda. Subito si ascolta uno start con degli stop della batteria e un tema dissonante che punta su legati chitarristici davvero evocativi. Da subito si notano le doti vocali di Gene Adam, un cantante molto versatile sia nei timbri che nelle interpretazioni. Un accostamento agli standard Thrash vocali dell’epoca è dovuto, in fondo sul questo disco ci ha messo le mani il grande Tom Morris (dei Morrisound Studios in Florida), un professionista che ha contribuito davvero tanto a diffondere il Metal negli anni ’90. La parte centrale della canzone è splendida: un riffing granitico e così secco da impressionare e che lascia intravedere quella che sarà una delle caratteristiche del sound della band. La reprise, un po’ frettolosa, chiude il brano lasciando spazio a ‘Written On The Walls’. L’intro di questo brano è in stile Goblin, con delle tastiere lugubri a opera di Roger “The Hammer” Huff e, come da manuale del Thrash, si discosta di molto dalla strofa in questione. La rabbia di questo combo è invidiabile, ma lascia sempre spazio a momenti cadenzati e riflessivi: al minuto 1:50 l’apertura delle chitarre in contrasto, a opera di Jon Schaffer e Randall Shawver, ne è la degna conferma, con un crescendo notevole di atmosfere ultraterrene con il coinvolgimento del “parlato” di Gene Adam. L’intermezzo con le chitarre acustiche ne risente un po’ per il brusco cambio del numero di bpm in discesa, tuttavia questo si fa perdonare dal rientro nel riff working successivo. C’è da dire che le chitarre ritmiche sono quasi sempre in risalto, più delle parti soliste, caratteristica anch’essa di quello che sarà il futuro wall of sound della “terra ghiacciata”. Le evoluzioni strumentali nel finale sono molto orecchiabili e il fade out permette di rilassarsi solo qualche frazione di secondo. La release in questione è remixata e rimasterizzata da Zeuss (già attivo con Rob Zombie, Queensrÿche, Soulfly, Demons & Wizards e altri) e il suo lavoro è stato esemplare. Si è trattato solo (ma in realtà la questione non è così semplice) di un’operazione di “ingrossamento” del suono, maggiore definizione su alcuni strumenti (si veda ad esempio l’effetto “zanzara” delle chitarre nella versione originale che ha lasciato spazio a delle chitarre molto più presenti e realistiche nella versione rimasterizzata) e una resa più naturale delle riverberazioni. Notevole dunque il miglioramento del prodotto musicale anche se ovviamente i puristi disprezzeranno a priori questa operazione commerciale, ma è innegabile che il lavoro comunque risulti coerente e rispettoso delle scelte stilistiche fatte in sede di registrazione trent’anni fa.
Segue ‘Colors’, potentissima e con un gioco “maideniano” di chitarre in un contrasto davvero riuscito. L’intermezzo (sempre parlato) non brilla per originalità, ma crea delle “aspettative”, per cui è ben riuscito in questo contesto. Il solo, a opera di Randall Shawver, contiene tutti i costrutti del periodo storico, compresi i bending con nota fissa tenuta nella modulazione in stile Kirk Hammett. Le ritmiche sono massicce ovunque; un lavoro, questo, incredibilmente studiato per creare pathos e quella sensazione di “onnipotenza divina” che trasuda anche dalle liriche.
‘Curse The Sky’ inizia come la tipica ballata “Iced Earth”, tema misto ad arpeggio in clean guitar e con la grinta che arriva dopo nemmeno 30 secondi, questo è uno dei momenti più emozionanti di questo debutto. I livelli di tensione emotiva sono altissimi, le chitarre duettano di terza alla perfezione e l’assolo ricorda qualcosa dell’onnipresente masterpiece del “maestro burattinaio”.
Proseguendo troviamo ‘Life And Death’, caratterizzata da un intro molto semplice e orecchiabile e un’intoccata vocale ai limiti del folk. Qui il mid tempo è utile per riprendersi (non troppo e comunque non per molto) dalle sfuriate power-thrash precedenti. Anche in questo brano, dopo l’intro pacato e riflessivo, si parte di prepotenza con un putiferio di riff granitici, ma allo stesso tempo melodici. Da citare fino a ora il lavoro dietro le pelli di Mike McGill, intenso e preciso, che impreziosisce ogni singola nota di Shaffer con fill e stacchi. La parte centrale di ‘Life and Death’ è un chiaro tributo agli Iron Maiden di Powerslave, ovviamente sotto una luce più “americana” e potente; la storica band inglese è tra quelle che hanno maggiormente ispirato tutto il songwriting della band (o di Shaffer in prima persona, d’altronde ispirazione mai negata da quest’ultimo).
‘Solitude’ risulta essere più un preludio che una song brillante di luce propria, prepara il campo e riscalda per la successiva ‘Funeral’. Al suo interno si può ascoltare un riff davvero incisivo e ispirato, peccato per il break successivo, perché probabilmente meritava un’evoluzione diversa. La potenza la fa da padrone e qui si ha la sensazione che, più che in altri brani, il vero valore aggiunto (per chi non lo avesse ancora capito) è la sei corde di Shaffer. Il lavoro di Adam alla voce si riduce all’osso e, anche se stiamo parlando di una strumentale, la conferma è data dalle parti sempre presenti in modo estemporaneo del “parlato”, come se non si volesse sfruttare a pieno la presenza di un frontman che fino a questo momento ha fatto un lavoro di tutto rispetto. Riff spaccaossa e un solo un po’ sottotono sono le caratteristiche più evidenti in questa song, alcune melodie riflettono atmosfere presenti in un lavoro tanto diverso (per geografia e tempo di realizzazione) che quattro anni più tardi vedrà alla luce col nome di ‘Subterranean’ (primo EP della band In Flames). Sarà per la somiglianza delle parti chitarristiche letteralmente prese in prestito alla coppia “Adrian Smith e Dave Murray”, sarà per la produzione di quegli anni, ma la resa sonora è più europea che altro, come detto tra l’altro in apertura anche con altri riferimenti.
Nel finale c’è spazio per il vero capolavoro del disco: ‘When The Night Falls’, ovvero il brano più lungo dell’intero platter (9:00 minuti). Un viaggio mistico in quello che potrà sembrare la traccia più complessa (lo è se si considerano le innumerevoli parti strumentali), ma che in realtà è forse il brano più facile da digerire e apprezzare anche solo dopo il primo ascolto. Il merito del livello compositivo del brano (musica e testi sempre di Shaffer) sta che nulla sembra “incollato” a caso. Tutti i break sono nel punto giusto, il riffing è maniacale e il chorus è da brivido nella sua epicità (complice anche l’inserto delle tastiere con effetto corale). Anche qui troviamo l’ennesimo bridge (purtroppo) con modalità “parlata”, ma per fortuna dura pochissimo (anche se si ripresenterà più volte durante la canzone). Le parti a due voci delle chitarre sono sublimi, seguono il cambio di accordi pur risultando un “perno” per l’armonia sottostante. Il resto lo fa l’assolo e la reprise. La ritmica dal minuto 5:48 è semplicemente da capogiro, una presa così “fisica” sullo strumento può essere riconosciuta solo al compianto Dimebag Darrell in quanto a precisione e violenza. Finale in fade out sognante come ogni ending che si rispetti, forse un po’ troppo frettoloso nella sfumatura ma è comunque di grande effetto.
Nella vita tutto passa, niente dura per sempre, ma quando si parla di certi dischi e di certe operazioni commerciali, il moto ciclico virtuoso ha il merito, altissimo, di restituirci un album in grado di ripresentarsi a distanza di anni, manifestandosi a chi non l’ha mai ascoltato o di ritornare sotto rinnovate spoglie, per essere riabbracciato in modo carezzevole e per non essere più dimenticato.