Recensione: Icon Of Sin
Immaginate di essere un giornalista e di dover scrivere un editoriale su un intervento di De Luca (il governatore della Campania); solo che l’intervento non è di De Luca, ma di Maurizio Crozza, che ne fa un’imitazione. Ecco, declinando la situazione in salsa heavy metal, il vostro recensore si trova nelle medesime condizioni.
Questo Icon Of Sin, della band omonima, pare un disco di Bruce Dickinson, o meglio una summa dei dischi di Bruce Dickinson: se non che la nostra amata Air Ride Siren non è nient’altro che l’oggetto della (perfetta) imitazione del cantante degli Icon Of Sin, il brasiliano Raphael Mendes. Non pago, Serafino Perugino, Presidente e A&R Director della lodevole Frontiers Records, ha accostato all’ugola di Mendes le penne di Sergio Mazul, cantante dei Semblant, e di Marcelo Gelbcke, chitarrista dei Landfall, due nomi della scena metal carioca: che si sono pure impegnati a scrivere pezzi che più dickinsoniani non potrebbero essere.
Insomma, una esplicita, a suo modo sincera, imitazione, che scaturisce dal successo maturato dalla serie di video intitolata What if Bruce Dickinson sang in other bands, dove Mendes si cimentava in cover di varie band metal cantandole, appunto, “a la Dickinson”.
E mi chiedo: davvero a questo punto è arrivato il nostro heavy metal? Davvero c’è qualcuno che diventa minimamente famoso, perché fa cover di band famose imitando la voce del cantante di un’altra band famosa? No, per favore, ditemi che non siamo ridotti a questo. Ditemi che l’underground pulsa di idee, certo spesso derivative, ma sempre orientate all’affermazione dei propri tratti distintivi. Ditemi che le band storiche sono totem intoccabili che bisogna ammirare e non solo non tentare di emulare, ma soprattutto di imitare. Altrimenti è circo, è cabaret, varietà, Zelig, avanspettacolo.
Fatico ad ascoltare questo disco, che è suonato bene, è composto bene, ha melodie piacevoli e un tiro che non è niente male. Eppure fatico ad ascoltarlo, perché l’idea che sorregge il progetto proprio non mi convince. Ma devo farlo, per mettervi nelle mani una recensione che tratti (anche) dei pezzi del disco.
Il talento compositivo di Sergio Mazul e di Marcelo Gelbcke è valido, seppur qui discutibilmente applicato. Dico che è valido, perché le penne dei due brasiliani riescono a mettere in bocca a Raphael Mendes un mazzo di brani che attraversano le varie fasi della carriera di Bruce Dickinson, dai Samson agli Iron Maiden, passando per l’esperienza solista, con l’unica eccezione del progetto Skunkworks, troppo affine al grunge e distante dal prototipo dickinsoniano per essere riproposto in questa imitazione che sono gli Icon Of Sin.
Ecco, dunque, che la title-track, posta in apertura del disco, è un sunto di tutto Dickinson, tra richiami alla NWOBHM, melodie solistiche nelle strofe e un ritornello semplicemente maideniano. Il pezzo è oggettivamente bello, ma c’è il ma di cui sopra.
Molto Samson, invece, è Road Rage, che ci riporta al Festival di Reading del 1981, dove Harris visionò quel giovane Bruce Bruce.
E così via, tra momenti esplicitamente a la Iron Maiden del nuovo millennio (Shadow Dancer, Night Breed, Pandemic Euphoria) e suoni più cupi che rimandano a The Chemical Wedding (Unholy Battleground) o più sbarazzini a la Accident of Birth, o addirittura Tattooed Millionaire (Arcade Generation).
Meno male che il teatrale mid-tempo Clouds over Gotham scarta un poco dalla clonazione generalizzata, mentre The Last Samurai e The Howling giocano al power metal europeo, senza in vero raggiungere grandi vette di qualità.
Alla fine, se ancora non lo avete capito, a me questo disco non piace. Lo trovo quasi offensivo nei confronti dell’heavy metal stesso, che non deve ridursi alla caricatura di se stesso.
In calce a questa recensione troverete un voto: risulta dalla media dei punteggi che ho assegnato ad altrettanti criteri e livelli di valutazione che ho voluto adottare. Primo, la qualità dell’imitazione di Bruce Dickinson da parte dell’attore Sergio Mazul, che vale un 80. Secondo, la qualità dei brani del disco, un solido heavy metal che attraversa i decenni e che merita un 70. Infine, il valore sostanziale del progetto musicale, che è del tutto assente e si guadagna uno 0 (zero). Dunque, 150 diviso 3: 50.
Almeno con Crozza – De Luca mi faccio una risata…