Recensione: II
Tre anni fa ci eravamo preoccupati; e un poco rattristati. Sì, perché confidavamo di aver trovato negli H.E.A.T. un porto sicuro, dove approdare ogni volta che ci servisse una bella dose di hard rock adrenalinico, certo ottantiano, ma anche tanto attuale.
Ebbene, Into the Great Unknown ci aveva deluso, con quel suo atteggiameno poppettaro che smussava tutti gli angoli più duri della proposta della band svedese. Tearing Down the Walls e, soprattutto, il bellissimo Address the Nation (ormai un classico) sembravano davvero lontani e il timore di aver fallito nell’individuare i nuovi alfieri del genere ci montava addosso.
Ma, per fortuna, Into the Great Unknown è stato solo un episodio sfortunato e non un modello di riferimento per gli H.E.A.T., che con questo nuovo II tornano a fare gli H.E.A.T., ovvero una macchina perfetta di melodie, arrangiamenti, dinamica e, finalmente, convinzione. Ecco, proprio quella convinzione che pareva essere rimasta incastrata nello studio di registrazione ai tempi di Into the Great Unknown, torna grande protagonista in II. Rock Your Body mette subito le cose in chiaro: un anthem che richiama i migliori Europe e conquista l’ascoltatore, cui la successiva Dangerous Ground regala un’altra splendida melodia, sorretta da un gran tiro. Un tiro che certo non manca al singolo Come Clean e, soprattutto, alla grandiosa Victory, un pezzo tanto limpido e semplice quanto aggressivo e coinvolgente: con arrangiamenti più duri, e magari un poco rallentato, non avrebbe sfigurato su un (bel) disco degli Hammerfall.
Con We Are Gods rimaniamo su suoni pesanti per le latitudini degli H.E.A.T.. La band si cimenta in un pezzone giocato intorno a un riff metalloso che scaturisce in un ritornello martellante e, quindi, in un classico assolo hard & heavy.
Adrenaline tiene fede al proprio nome, essendo una versione adrenalinizzata (appunto) dei Journey più veloci e dinamici. E come stare fermi con One by One, che richiama i momenti migliori di Address the Nation? Un gran divertimento che spinge addirittura a fare air guitar.
E non può mancare la classica ballad della band rock svedese. Nothing To Say è meno banale di quanto possa sembrare a un primo ascolto, benché la qualità della scrittura sia sicuramente impreziosita da una grande prestazione di Erik Grönwall.
Heaven Must Have Won An Angel è, invece, forse l’unico momento un po’ debole del disco, a partire dal giro di tastiere che lo apre e che suona davvero eccessivamente retro. Per fortuna, la band è in un momento di grazia e riesce, comunque, a valorizzare una canzone che però nel complesso non merita di essere ricordata.
Quasi a risvegliare l’ascoltatore con una bella sberla, Under the Gun è una veloce cavalcata vincente decisissima e, soprattutto, capace d’integrare alla perfezione il lavoro delle tastiere con quello delle chitarre, qui più dure che altrove.
Infine, Rise inizia come un milione di pezzoni po(m)p degli anni ottanta, per poi autogenerarsi in un compendio delle capacità di scrittura degli H.E.A.T., sublimate nell’ennesimo ritornello indimenticabile e coinvolgente, sulla base di un bell’arrangiamento hard rock tastieroso.
Insomma, con II salutiamo felicemente il ritorno degli H.E.A.T. nel posto che più compete loro, ovvero i piani alti dell’hard rock melodico, ma non per questo dimentico di un certo atteggiamento heavy. Chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo sa bene come quella sia una delle dimensioni in cui gli svedesi sanno spiccare, grazie soprattutto a quel folletto fenomenale di Erik Grönwall. II raccoglie un arsenale potentissimo pronto a scoppiare sul palco; quando mai la tragica pandemia virale cui assistiamo sgomenti consentirà nuovamente al rocker di schiacciarsi con i propri simili sotto a un palco, sapremo di poter contare sugli H.E.A.T. per tornare a sorridere.