Recensione: II
Nella cultura popolare italiana uno dei mantra più ossessivi e precoci, appreso sin dal tempo in cui la scuola è soltanto una parola priva di significato ma che rappresenta nell’immaginario già una tappa di vita, è il vecchio adagio popolare “l’erba del vicino è sempre più verde”; questo detto, la cui origine è ormai nota, ha subito, in una sorta di differenziazione geografica, alcune modificazioni, ma senza che ne venisse alterato il senso. Per esempio in Inghilterra questo noto proverbio tradotto suona così: “l’erba è sempre più verde dall’altro lato della recinzione”; in Germania esistono un paio di versioni, ma che non cambiano assolutamente il significato dell’espressione.
Questo proverbio, come noto, vuole indicare quelle persone che non apprezzano quello che hanno, provando, al contempo, invidia per quanto fatto da altri. Questo fare è tipico in riferimento al mondo dell’arte dove ostinatamente si cercano oltreconfine dei capolavori ignorando che anche nel nostro territorio nazionale vengono generate delle opere meritevoli di attenzione, stima e considerazione.
Il caso dei milanesi Benthos, e del loro debut album II, è un esempio lampante di come anche in Italia ci siano musicisti e band che nulla hanno da invidiare “all’erba del vicino”. Da subito si sono caratterizzati da un profondo respiro internazionale, firmando con l’Eclipse Records, caratteristica questa non scontata e che magari si raggiunge dopo una certa longevità artistica. A prova di questo c’è l’esperienza vissuta come band di supporto agli americani The Contortionist.
L’album II rappresenta sicuramente la pista di decollo verso un futuro che dal debut album stesso trae forza, determinazione, caparbietà, stile e coraggio; con i Benthos l’orizzonte musicale si allarga, l’intreccio musicale vede scenari diversi che farebbero storcere il naso ai puristi ma che contestualmente, nel momento in cui la sfida musicale sembra disputarsi su oscuri e inconsueti scenari, riesce a riportare sapientemente il tutto su matrici classiche, il tutto in questa sfida dal sapore antico che si sviluppa e si ritrae sempre tra nuovo e classico, dove uno non predomina sull’altro. Quindi troveremo contaminazioni tra diversi generi, poi abilmente mescolati fino a far sbocciare il loro stile particolare, ma non unico perché la lezione degli Opeth (soprattutto per quanto riguarda la voce), snodo obbligato per chi suona il Progressive, o di altri gruppi anche nostrani, è stata recepita e poi sviluppata seguendo il livello tecnico della band. A tal proposito è interessante far notare che i due chitarristi, Gabriele Papagni ed Enrico Tripoldi, hanno una formazione accademica classica.
Per le orecchie l’ascolto del disco è piacevole, ci si perde tra la schizofrenia, la claustrofobia, la melodia, la potenza e tanto altro che fa emergere il lavoro certosino della band, un lavoro che ha preso le strade della ricerca e che ha consentito di mettere ogni cosa al posto giusto. L’album è “suonato” tanto, ma il tutto è stato ben incastrato e per quanto possa apparire strano è la voce di Gabrile Landillo a conferire “pesantezza” a tutto il lavoro, con un isterico e rabbioso growl che sembra arrivare da una profondità dantesca non ben identificabile.
Il disco appare interessante sin dai primi secondi di ascolto; di solito si è abituati a una prima track come apripista, come intro, in II, invece, il primo brano è una song a sé stante. Cartesio, questo il titolo del brano, è un ottimo biglietto da visita, suspence al punto giusto, ma già dalle prime note si evince che qui siamo di fronte a dei ragazzi che sanno come fare musica.
L’attacco di Back And Forth è tra i più belli degli ultimi anni qui in casa nostra, meritava uno sviluppo forse più coerente con il riff stesso, ma la scelta di cambiare da subito registro è comunque azzeccatissima. Gabriele Landillo alla voce risulta molto espressivo, ha delle idee melodiche di grande impatto e un timbro molto versatile (che però non si discosta molto dal modello del guru Daniel Tompkins dei Tesseract). Il lavoro fatto presso il Magnitude Recording Studio rivela un sound corposo e d’impatto, del tutto accostabile alle produzioni del settore odierne (nel bene e nel male…). La produzione, a cura di Matteo Magni (già operativo con gli A New Rage, i Deepest Ocean, ecc.), esalta giustamente le doti di ogni musicista. Le chitarre di Gabriele Papagni ed Enrico Tripodi (come già accennato entrambi studenti di chitarra classica presso il Conservatorio di Musica Giuseppe Verdi di Milano) sono nitide e corpose, sia nelle parti ritmiche che nelle parti pulite. Molto interessante appare la ricerca intensa di armonie su tempi dispari, dove il drumming di Alessandro Tagliani risulta davvero molto incisivo e mai invadente. Le ambientazioni e i riverberi sono, oltre alla tecnica dei musicisti, il pezzo forte di questo album.
Per gli amanti degli Earthside (il loro A Dream In Static del 2015 è ormai una pietra miliare) ci sarà da divertirsi: ritmiche intricate, momenti riflessivi a base di tonnellate di delay made in U2, contrasti di chitarra e cantato growl nelle parti più violente impreziosiscono tutto il lavoro. Queste ultime sono molto interessanti, denotano forse un tributo incondizionato a band come i The Contortionist, ma questo aspetto risulta molto godibile e ben confezionato. Un lavoro davvero ben strutturato e complesso questo II.
La title track, con i versi “My feet on the grass, Gliding, The glowing dew, Constellation, Light doesn’t lapse ,Unbreakable blaze, Dazzling”, è ipnotica nella strofa ed eclettica nello sviluppo successivo. Bellissimi i lavori di post produzione sulle chitarre nella parte centrale, ma in realtà questi sono presenti su tutto il disco. I Benthos si rivelano davvero professionali sotto ogni punto di vista.
Comunque c’è anche del Leprous sound in questo lavoro, soprattutto se parliamo di Debris Essence.
Il brano è anticipato dalla strumentale intro sperimentale Facing The Deep e qui il combo nostrano mostra tutto il suo lato emozionale. È davvero una sorpresa constatare che siamo davanti a una delle band rivelazione, un progetto molto interessante da tenere d’occhio nello sviluppo della loro carriera. Si gioca a favore della musica, non c’è spazio per inutili virtuosismi solistici, a eccezione per le parti vocali di Gabriele Landillo, qui in gran spolvero e senza dubbio molto lontane dal termine “inutili”. Tra i punti più alti di II, in questa song i contrasti tra le clean vocals e il growl si fanno intensi e trascinano l’ascoltatore in un vortice di emozioni.
Troppo breve questo viaggio, si giunge al capolinea con Dissolving Flowers, il brano più lungo del platter, che mette in mostra le stupende clean guitars iniziali, ma soprattutto il basso di Alberto Fiorani, evocativo e di gran lunga molto ispirato. La parte centrale del brano segue ritmi cadenzati, per di più Djent di prim’ordine che non dà mai la sensazione di prevalere sulla melodia.
I Benthos rappresentano una band dall’alto livello e dal grande potenziale, sicuramente attenti a ogni minimo dettaglio come la cover del disco testimonia in maniera inequivocabile. Non è comune ascoltare un debut album di questo profilo e ciò rappresenta un ottimo punto di partenza per apprezzare una band italiana che ha tutti i numeri per continuare a stupire l’ascoltatore.
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